le storie

Sul ring con la bandiera dei Fedelissimi della Salernitana

Dalla palestra del Centro sociale di Pastena alla mitica Gleason’s Gym di New York. Dario Socci deve tutto alla boxe

SALERNO. Imprevedibile, sofferta, a volte gratificante: la boxe come metafora della vita. Dario Socci, pugile professionista salernitano che gira il mondo all’inseguimento di sogni e titoli, non dimentica i tanti sacrifici compiuti per costruire una carriera sportiva che, a ventotto anni, gli ha già regalato tante soddisfazioni. «Il pugile dà molto di più di quel che riceve, in termini di rinunce fatte; da questo punto di vista è condannato a perdere, sempre. Per arrivare in alto, inoltre, devi isolarti mentalmente e percorrere un sentiero in solitario – analizza Socci – Tuttavia, ogni volta che salgo sul ring è come se il tempo si fermasse, assaporando ogni singolo istante che mi porta verso il centro del quadrato, faccia a faccia con il mio avversario. Sono emozioni uniche, indescrivibili».

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Gli inizi. Strumento di crescita e riscatto sociale, la nobile arte del pugilato ha canalizzato in maniera positiva il disagio giovanile di Dario, allontanandolo dalle tentazioni che offriva la strada. «Avevo da poco perso mio padre, a scuola ero un disastro; il pugilato ha rappresentato la mia unica valvola di sfogo, formandomi soprattutto a livello umano. È stata la boxe a scegliere me». A quindici anni i primi guantoni con la Metropolis Boxe al Centro Sociale di Salerno, nella zona orientale; a diciannove il trasferimento all’Audace, storica palestra capitolina all’ombra del Colosseo. Infine, dopo decine di incontri da dilettante, il grande balzo oltreoceano nel 2010 verso il professionismo, che l’ha portato a bussare alla porta di un tempio del pugilato mondiale, la mitica Gleason’s Gym di New York. Un luogo leggendario, dove si sono allenati più di cento campioni del mondo, da Jake La Motta a Muhammad Alì per arrivare a Mike Tyson, in cui sono stati girati ventisei film tra i quali Toro Scatenato e Million Dollar Baby.

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Il professionismo. I primi tempi negli Stati Uniti, complici le difficoltà linguistiche e un diverso approccio alla disciplina, sono stati molto duri. Una forza d’animo fuori dal comune unita ad una determinazione feroce hanno però tenuto a galla il pugile salernitano. La svolta con Albino Dragone, manager italoamericano che gli ha fatto sottoscrivere il primo contratto da professionista. L’11 agosto 2012 il debutto a Brooklyn, nella Mecca della boxe, contro Josè Angel Ortiz. «Un esordio da brividi, condito da quella che rimane per me la vittoria più bella della mia carriera. Un momento di estasi sportiva che mi ha ripagato dei sacrifici di una vita» ricorda Dario. Negli States il pugile salernitano ha totalizzato tre incontri, dei quali uno trasmesso in mondovisione sul canale HBO. Eredità di quel periodo è l’appellativo di “Italian Trouble”, marchiato indelebilmente sulla pelle. «È stato un momento molto importante sia dal punto di vista sportivo che umano; emozionante poi vedere il mio nome sulle locandine affisse a Times Square».

I viaggi. Di lì, il ritorno in Europa dove ha conquistato tre titoli combattendo tra Germania e Serbia. E, ancora, sessioni di allenamento tra Brasile, Giappone e Singapore, dove Socci si è confrontato con atleti dell’Ultimate Fighting Championship. «Viaggiare ha cambiato il mio modo di pensare, parlo correttamente inglese e spagnolo, ho sviluppato una curiosità e una passione per l’arte – osserva Dario - Dopo i combattimenti mi piace approfondire il lato culturale delle città che mi ospita. Ho visitato musei e luoghi davvero affascinanti». Al momento Dario è impegnato in Messico per il suo quattordicesimo match tra i pro, in programma sabato 3 dicembre a Guadalajara contro il messicano Carlos Meza. «La preparazione di un match è fatta di dieta, palestra e allenamenti sette giorni su sette; psicologicamente è molto provante. Da quando sono arrivato non ho ancora avuto la possibilità di visitare la città – spiega Socci – Nel contempo, sono onorato di poter incrociare i guantoni con un pugile del Messico, da sempre fucina di talenti oltre a essere un paese dove la boxe è sport nazionale. Sarà sicuramente un’ottima occasione di crescita».

Senso di appartenenza. Viscerale il rapporto che Dario mantiene con la sua città d’origine. «Sono orgoglioso di rappresentare Salerno durante i combattimenti» afferma con gioia il pugile. Due sono le cose che non mancano mai negli incontri di Dario Socci: il vessillo granata dei Fedelissimi, amici di sempre, e il rap di Morfuco e Tonico 70 che accompagnano il suo ingresso nel quadrato. Facile per Dario immedesimarsi nei versi crudi di “Gold School”, nella quale i rapper cantano che «hardcore nun è ‘a musica ma ‘a vita». Un percorso comune a chi si gode le soddisfazioni dopo una lunga gavetta, nella musica come nello sport. «Dario è per me un fratello, un campione vero dentro e fuori dal ring – afferma Mario “Morfuco” Ventura, autore della poetica “Alone in the ring” - Dopo aver vinto il titolo è venuto in bottega con la cintura: ero talmente emozionato che mi tremavano le mani nel sollevarla».

L’auspicio. Un giorno Dario spera di poter tornare a casa. «Mi piacerebbe restituire ai giovani della mia città quello che la boxe mi ha dato, orientandoli verso la giusta carriera pugilistica. In Italia si fa ancora tanta confusione tra dilettantismo e professionismo».

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