Cechov parla napoletano

La traduzione de “Il giardino dei ciliegi” in dialetto ci avvicina di più ai russi

di PASQUALE DE CRISTOFARO

“Non vi meravigliate: i Russi sono Napoletani congelati”; questa frase, detta con colta disinvoltura e buttata lì durante una lezione di un giorno qualsiasi da un brillante professore di francese (prof. Romano) con l’amore verso la lingua russa, colpirà a tal punto il giovane liceale Alfonso Liguori, il quale non solo non la dimenticherà mai ma, anzi, la indicherà come una di quelle frasi rivelatrici di una passione, quella per il teatro, che ha segnato la sua vita. Ma andiamo con ordine. Già dai tempi dell’Accademia “Silvio D’Amico” (Accademia Nazionale d’arte drammatica di Roma), Liguori, che ama la lingua napoletana e Cechov, avrebbe voluto provare a tradurre il capolavoro del medico russo “Il giardino dei ciliegi” nella lingua partenopea per cercarne le radici più profonde. Un corpo a corpo, che aggirasse le insidie di un italiano affetto da eccessiva letterarietà e che avrebbe reso poco e male, a suo dire, il rapporto così profondo tra suono della lingua russa e l’anima del suo popolo. Per una parola che riuscisse, insomma, a farsi corpo sulla scena, l’italiano gli era apparsa già allora come una lingua inadeguata. In realtà, se non conoscessi la profonda serietà e pignoleria di Liguori, liquiderei subito la cosa come un azzardo ai limiti dell’incoscienza. Ma a volte gli azzardi risultano felici epifanie. Detto, fatto. Ora l’adattamento e la versione napoletana c’è ed è possibile leggerla. È stata, infatti, appena pubblicata (Opera edizioni, Salerno) col titolo: “Nu ciardino d’’e cerase”. Affascinato dal mondo cechoviano, completamente irretito in una vischiosa stasi, dove anche il tempo dei suoi personaggi scorre lento mentre veloci corrono le lancette dell’orologio della storia, Liguori cerca rifugio nella sua lingua “materna”, l’unica, forse, capace di restituire alla disperante poesia cechoviana la giusta struttura timbrica, il tono e quella necessaria melodia per ripercorrerne le sue più profonde ferite. Strappi, urla silenziose, crepe, che solo il napoletano ascoltato fin da bambino avrebbe potuto risillabare con sincerità quel “vocabolario dei sentimenti” di un mondo ormai scomparso per sempre. Operazione da far tremare i polsi anche a gente espertissima. Ed ecco, allora, che Liguori si mette alla ricerca di “capitani coraggiosi” che potessero dargli una mano. E li trova. Innanzitutto, Antonio De Rosa, suo compagno di scena che travolto dall’entusiasmo di Alfonso, non solo non si ritrae ma addirittura si fa artefice in prima persona prestando tutta la sua perizia linguistica per mettere a punto la traduzione a quattro mani. E, ancora, Peppe Bisogno, amico e sodale già dai tempi dell’Accademia che non farà mancare mai il suo sostegno nei lunghi mesi che occorrono per portare a termine l’impresa. Ma a chiudere il cerchio sarà il sopraggiungere di Olga Korenkova, che “vive e studia a Napoli da dieci anni, conosce ormai bene i napoletani e il napoletano”, conosciuta mentre insieme lavorano al Napoli Teatro Festival Italia (2013). Sarà proprio Olga a dare la spiegazione più plausibile dopo tanti anni ad Alfonso di quella sibillina frase del professore secondo cui i russi sarebbero dei napoletani congelati. Secondo lei, appunto, i russi e i napoletani sarebbero “gente di cuore, passionale, abituata a inventarsi la giornata, a stare sempre con le antenne ritte, ironica, spiritosa, quando parlano quasi sempre intendono un’altra cosa”.

Detto questo, concludo questa mia nota dicendo che dovremo essere grati ad Alfonso Liguori di questa bella opportunità che ci permette di riassaporare la nobiltà di un dialetto che è lingua, affrontato con una maniacale e rara perizia. Una lingua declinata a seconda di “ceto e censo”, dal sapore antico, ottocentesco; con tanti riverberi ed echi di un glorioso passato. Un’operazione rischiosa ma riuscita, in cui la poesia cechoviana rimane intatta anche se cambia il contesto e il tempo (qui la vicenda viene retrodatata di qualche decennio per rendere più evidente e polemico il passaggio dai Borbone all’Italia unita dalla corona Sabauda). Il fascino di un mondo che cambia radicalmente, in cui provano a sopravvivere individui che non hanno più i muscoli per farlo. Un teatro di poesia, poesia anche civile, necessario per cercare di capire meglio la vita e la società. E questo lo sa bene Liguori, perché Marisa Fabbri, loro insegnante in Accademia, ripeteva sempre durante le sue straordinarie lezioni che “un attore è prima d’ogni altra cosa un cittadino”.

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