L’EDITORIALE

Se questo è un uomo: gli schiavi fra noi e l’indifferenza

I profughi nelle mani dei caporali che li fanno lavorare duramente e senza diritti per un’intera giornata per compensi da fame. È la punta dell’iceberg del lavoro nero e di quello grigio, una vergogna senza fine incontrastata da una politica disastrosa che ci regala servizi sanitari ridicoli e ancora fa balletti intorno a strutture incompiute che fanno comodo solo ai costruttori. E il Capo dei capi detta la linea in tv... incredibile ma vero

Se questo è un uomo. Bisogna chiederselo, farsela questa domanda di fronte a un’immagine come quella di un ragazzo che espone un cartello con scritto “Ciao, ho bisogno di lavorare”. E lo fa a bordo di una strada di quello che prima di oggi era il mondo dei suoi sogni mentre spera di esser caricato su un furgone o su un’auto. Destinazione? Un campo assolato per raccogliere ortaggi o un cantiere edile altrettanto assolato per fare lavori pesanti al prezzo di una misera mancia.

Quando va bene ci sono 20, 25 euro di paga per un giorno intero di lavoro, senza soste e senza diritti. E poi una moderna capanna dello zio Tom dove passare la notte buttato per terra insieme con tanti altri che non sappiamo più che cosa siano se non schiavi. Sì, tecnicamente si tratta di sfruttamento estremo del lavoro. Ma il confine è sottile: sì, questi sono schiavi che talvolta rischiano ancor di più, come Bakery, il 28enne malese che giovedì è stato investito da un’auto. Con una bici sgangherata stava andando a raccogliere pomodori nella Piana del Sele, dove gli ultimi e i penultimi hanno trovato qualcuno più ultimo di loro e lo sfruttano. Gli ultimi sono immigrati già radicati, al soldo della criminalità, che fanno il lavoro sporco, quello dei caporali. Ma non sono i peggiori. I peggiori sono i cosiddetti utilizzatori finali, italiani, donne e uomini che hanno le loro piccole aziende da portare avanti magari con difficoltà ma che non esitano a sfruttare oltre ogni limite della dignità questi cacciatori di sogni che vengono da condizioni ancora peggiori. Risparmiano cinque, dieci euro al giorno per ogni coppia di braccia rispetto ai trenta che davano agli “ultimi” che c’erano prima, sempre immigrati, sempre disperati. Meno della metà di un lavoratore regolare. Che ormai è merce sempre più rara. Sì, è vero, non tutto è così ma c’è anche la zona grigia dei contributi pagati per la metà della metà delle ore lavorate, la terra di mezzo che non fa certo orgoglio e che si allarga sempre più. E che non riguarda solo i lavoratori stranieri.

Chiediamocelo, facciamocela questa domanda su cosa sono questi uomini fuggiti da guerre, umiliazioni e povertà certo peggiore di questa che a noi sembra già l’inferno. Hanno attraversato il mare su barconi marci e sovraffollati, qualcuno è anche colato a picco portando con sé morti che purtroppo contano zero. Quelli che sono riusciti a farsi ripescare hanno cominciato un altro viaggio nell’incubo, prima in un centro di accoglienza dove altri fanno soldi sulla loro pelle, incassando ciò che lo Stato stanzia per aiutare questi poveretti senza che poi i denari siano investiti in reale assistenza. Al punto che molti di questi ragazzi fuggono, per loro la vita è tutta una fuga. Li vediamo e non diciamo niente, perché ormai è passata la logica del “noi” e “loro”.

Ormai, va detto senza esitazioni, la nostra è una società che difende i diritti molto più che al ribasso. E lo fa anche quando c’è di mezzo la salute, di tutti. Ieri a Eboli e Marina di Camerota sono morte due persone per via di soccorsi inadeguati. Inaccettabile, eppure non è cosa rara. Una sanità gestita così se anche fosse un semplice condominio non potrebbe reggere che più di tre giorni. Quelli che la amministrano sarebbero cacciati per manifesta incapacità e si vedrebbero chiedere i danni. Qui no, qui si mettono in piedi strutture inadeguate e fuori dal tempo e che rendono vano anche il grande impegno di donne e uomini che ci lavorano.

Quei due morti di ieri è come se fossero stati uccisi. Dall’incapacità della politica ma anche dall’indifferenza che regna sovrana in una zona dove uno solo comanda e i pretoriani eseguono. Dove tutto è gestito con la disastrosa logica della sanità e la disinformatja permette ancora che il presidente della Regione, il Capo dei capi, da uno schermo tv detti gli ordini al sindaco di Salerno. Certo con il solito tono tra mellifluità e arroganza (“poi fai come vuoi, però...”) mescolate in un cocktail inaccettabile al di là del merito di ciò che si sostiene. E cioè di fregarsene delle ordinanze della giustizia amministrativa e andare avanti con i lavori della piazza sul mare.

Ecco il nostro mondo a due facce in poche centinaia di metri. Da una parte la volontà di Grande bellezza ridotta alla barzelletta di un’opera brutta e incompiuta, funzionale solo alle casse dei costruttori; dall’altra una realtà di degrado e sporcizia a pochi passi da lì, nel cuore di una città che vive di falsa efficienza. Questi siamo oggi, a Salerno e dintorni, con il terrore che domani sia anche peggio. Perché a far pensare al baratro è il silenzio che ammanta l’accettazione di una schiavitù di fatto. Lo stesso silenzio che circonda gran parte di ciò che non va.

twitter: @s_tamburini

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