lo psichiatra

«Rinchiuderli non serve a nulla»

Corrivetti: per curare il disagio occorre il reinserimento sociale

SALERNO. «Doveva essere rinchiuso». «Ce la porteremo sulla coscienza». «Una morte che poteva essere evitata». Sono questi i commenti che da ore rimbombano in città sulla morte raccapricciante di Maria Pia Guariglia, la donna di 70 anni fatta a pezzi dal figlio, Lino Renzi, di 45 anni. Ma davvero il raptus omicida poteva essere evitato? Realmente gli antichi manicomi dietro le cui sbarre disfarsi della più scomoda e ingombrante delle patologie, quella psichiatrica, avrebbero costituito un’assicurazione sulla vita per l’anziana? Gli addetti ai lavori non ne sono affatto convinti. Anzi, spiegano, molto spesso condannare all’isolamento chi vive nel disagio, significa indurre la sua mente a focalizzare ogni attenzione solo sul disturbo anzichè profondere energie ed impegno nella costruzione di relazioni sociali. Ne è convinto Giulio Corrivetti, psichiatra: «La terapia farmacologica è fondamentale, ma accanto alla guarigione clinica deve esserci quella sociale. Non si può pensare di risolvere i problemi rinchiudendo chi è affetto da disagio mentale, perchè è invece fondamentale che i deficit cognitivi vadano curati in un ambiente stimolante». Come qualsiasi altra malattia organica, dove alla cura antibiotica si associa il rinforzo (o la ricostruzione) delle difese immunitarie del paziente. Corrivetti non difende a spada tratta la categoria, ammettendo che il sistema sanitario fa ancora acqua da tutte le parti, soprattutto su questo fronte: «Dovremmo avere un atteggiamento più orientato a cogliere quelle sfumature che potrebbero offrire indicatori, ma la nostra rete territoriale è assolutamente insufficiente. Siamo pochissimi. Negli anni abbiamo perso tanti operatori che non sono stati più rimpiazzati». Se le maglie del “controllo” sono larghe a causa della penuria di personale, è pur vero che un raptus può sfuggire anche al monitoraggio più attento e capillare, soprattutto in presenza di determinati soggetti, come Renzi, «che presentano caratteri di cupezza, introversione, un’indole rimuginativa, ma mai violenta». Corrivetti ha ricostruito la storia clinica del 45enne, «che tra l’altro nell’ultimo periodo era stato “chiuso” per ben cinque mesi tra l’Azienda ospedaliera ed una casa di cura privata dalla quale era stato dimesso con una terapia da seguire. Se l’abbia rispettata, se sia stato monitorato in questo periodo, non lo sappiamo». Quello che è certo è che l’uomo è stato protagonista di un gesto raccapricciante, che supera i confini della personalità paranoidea affetta da schizofrenia cronica di cui parlano gli psichiatri. Sventrare e mangiare un corpo che gli ha dato la vita (ma che era presumibilmente l’origine deflagrante del conflitto con se stesso e con gli altri) contiene un universo di simbologie infinite ed arcaiche, a partire dalla necessità perversa di azzerare le proprie origini e forse con esse, quelle pulsioni di matrice sessuale che l’hanno spinto a denudarsi subito dopo lo scempio del corpo materno.

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