il commento

Questa società che s'indigna solo se c'è di mezzo il diverso

Ragazzi “normali”. Una serata “normale”. Famiglie “normali”. E paesi altrettanto “normali”. Da giorni “normale” è un aggettivo fastidiosamente abusato, fatto rimbalzare dalle piazze ai luoghi di aggregazione reali e virtuali. Un mantra che ha il sapore della ricerca disperata di un appiglio.

SALERNO. Ragazzi “normali”. Una serata “normale”. Famiglie “normali”. E paesi altrettanto “normali”. Da giorni “normale” è un aggettivo fastidiosamente abusato, fatto rimbalzare dalle piazze ai luoghi di aggregazione reali e virtuali. Un mantra che ha il sapore della ricerca disperata di un appiglio. Per giustificare il branco di minorenni che, in un garage di San Valentino Torio, a turno, ha abusato di una quattordicenne.
 
Per legittimare l’eccezionalità di un evento e tenere lontano il rischio di una marchiatura a fuoco. Per tentare di tendere una mano a famiglie stravolte. Ma non sembra (solo) di inciampare in una ricerca affannata per salvare la faccia. Il linguaggio, in questo caso, si traveste da ansiolitico per scacciare altre paure e legittimare (forse) modelli tanto incrostati da ignoranza e pregiudizio, quanto fortemente radicati nelle viscere di un’iconografia collettiva per la quale il mostro è un altro, lontano da quei codicilli condivisi che tanto rassicurano le società.
 
Nel caso di specie, chi ha stuprato, commettendo un crimine non solo etico e umano, ma punibile dalla legge, non appartiene infatti alla categoria del “diverso da sé”, come lo straniero, il malato psichiatrico, il pregiudicato, la prostituta.
 
 
Se a violentare la ragazzina di Sarno fosse stato uno di loro, cioè uno di quelli volgarmente etichettabili come il “marcio della periferia”, nessuno si sarebbe stupito del fatto che l’autorità giudiziaria abbia deciso di spedire il branco in carcere. Nessuno avrebbe avuto il pessimo gusto di commentare: «è stata una ragazzata». Nessuno avrebbe manifestato con stupefacente candore reazioni così perplesse se non addirittura scandalizzate. Anzi. In tanti sarebbero scesi in piazza per chiedere la testa dello straniero, o, meglio ancora, i suoi attributi. Compresi molti di quelli sempre pronti a deridere il carrozzone salviniano. 
 
Avremmo assistito, con buona probabilità, all’ennesima finta rivolta forcaiola contro il clandestino brutto, sporco e cattivo, con tanto di anatemi del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca che, in occasione dello stupro sulla spiaggia di Santa Teresa a Salerno, quando una giovane donna fu abusata da due africani, promise con orgoglio ippocratico: «Butteremo fuori chi tocca le nostre donne». Peccato che non abbia avuto la stessa reazione di sdegno quando, in un terreno agricolo di via San Leonardo, furono trovati i cadaveri di due prostitute dell’Est, i cui assassini non hanno ancora un nome e un volto. 
 
È una questione di razzismo? Di certo è evidente l’incapacità “strutturata” di accettare l’altro (guarda caso la parola “ospite” condivide la sua radice con “hostis” che in latino significa nemico), ma anche la paura di ammettere che l’antropologia della violenza, quale che sia, prevede al suo interno una patologia della normalità, compresa quella apparentemente più rassicurante, fatta di protagonisti “normali”, accompagnati da vite, consuetudini e aspirazioni altrettanto figlie di una “normalità” che, come ha bene illustrato lo psicologo americano James Hillman, è un’idea profondamente archetipica. 
 
Soprattutto, è una questione di sguardi sul mondo, talmente sedimentati in modelli sbagliati tramandati nei secoli, da colpire, come un cancro, i figli delle rivoluzioni post sessantottine prima e i nativi digitali poi. Se infatti, su 800 ragazzi intervistati dai responsabili dei centri antiviolenza di Sarno, Angri e Roccapiemonte, ben il 63 per cento stigmatizza che una donna vittima di violenza se l’è cercata, è evidente che prima di parlare di parità o di tentare di blindare diritti mai oggettivamente acquisiti nei recinti delle quote rosa, bisognerebbe fare più di un passo indietro e ricostruire basi culturali che passino per il rispetto dell’altro. 
 
«Dica signorina, durante l’aggressione ha provato solo dolore o un certo piacere?». «È rimasta sempre passiva o a un certo punto ha partecipato?». «Ha raggiunto l’orgasmo?». Sono solo alcune delle domande che nel 1973 stuprarono, per la seconda volta, l’emotività di Franca Rame, attrice intensa, femminista convinta, intellettuale di spessore, che per anni, al fianco del premio Nobel Dario Fo, ha dato voce ai deboli e ai diseredati, portando pasolinianamente il tanfo del pesce nei salotti buoni delle città. Due anni dopo, quel dolore e quella rabbia per il sentirsi doppiamente abusata, sono diventati un monologo che andrebbe inserito d’imperio, oggi più che mai, nella programmazione scolastica.
 
Perché la cultura intesa come libertà e non come mero sapere nozionistico, è l’unico antidoto alla violenza.
 
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