Il dibattito

Conte: «Non più palazzi, città competitiva solo con i servizi»

Per l’ex ministro socialista delle Aree urbane, Salerno deve essere centro metropolitano: «La revisione del Puc è l'occasione per cambiare rotta»

SALERNO. Dagli indirizzi che, con la delibera del 31 gennaio 2017, la giunta municipale di Salerno ha dettato per la revisione del piano urbanistico comunale, emergono da un lato, le criticità, il decremento demografico, la crisi economica; dall’altro, direttive agli uffici finalizzate a promuovere altro costruire, in particolare nei settori commerciali, direzionali e produttivi. Si tratta di un’evidente contraddizione tra analisi e proposta, comprovata da un invenduto di circa centomila vani, che tradisce una preoccupante sottovalutazione dello stato della città e degli squilibri che la rendono ogni giorno più caotica. Di fatto, si esaspera la concezione della città chiusa e compatta, alla quale si ispira la manovra urbanistica del 2007, divenuta una tela di penelope di varianti espansive. Si continua, cioè, a ignorare che il punto di collegamento tra il cittadino e l’ambiente urbano non è l’abbondanza di case, ma una cittadinanza compiuta, non governata dalla costipazione degli spazi ma dal loro utilizzo.

La revisione del Piano urbanistico dovrebbe (deve) essere, perciò, l’occasione non per dare risposte particolari al costruire, ma per ridiscutere di Salerno nel contesto della modernità, dove le città, proponendosi come riferimento di aree vaste, stanno assumendo un ruolo governante a tutti livelli. Un processo che va intercettato e assecondato con la consapevolezza che per abitare e promuovere sviluppo, e per attrarre l’interesse dei visitatori e degli imprenditori, non servono più palazzi ma servizi, opportunità, luoghi formativi e di scambi, relazioni di alto profilo e competenze, che sono propri della città dell’economia descritta da Weber.

Per ancorare storicamente questa riflessione appare opportuno, per ragioni comparative e semplificative, il richiamo alla politica urbanistica attuata da tre noti sindaci di Salerno: Alfonso Menna, Vincenzo Giordano e Vincenzo De Luca.

Menna, sindaco dal 1956 al 1970, quando il suo partito, la Dc, era al massimo del fulgore, ha coltivato il sogno impossibile di una Salerno di cinquecentomila abitanti, la Milano del Sud, costruita a scala continua verso le periferie e dotata di un’importante zona industriale, ora ridotta a prevalente destinazione commerciale, non direzionale. Della sua opera restano alcune grandi infrastrutture, come la tangenziale e i segni di una violenta speculazione edilizia che, a cavallo degli anni Sessanta, si è abbattuta sulla città senza un piano regolatore che fosse adeguato a sostenerne la pretesa espansiva.

Vincenzo Giordano, socialista, sindaco dal 1986 al 1993, è stato un attuatore di grandi opere e di un progetto di città declinata, grazie a un confronto culturale di valore nazionale, per funzioni: la città possibile, la città giardino, la città dei servizi, la città degli standard a verde.

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Di questa esperienza, Vincenzo De Luca, comunista, ha ereditato i progetti e i finanziamenti, ne ha trasformato il segno e li ha piegati all’idea della grandeur di Menna, rilanciata nel segno dell’edilizia e dell’arredo urbano. Ha mirato a compattare la città con . opere minori – quelle strutturali già programmate, progettate e finanziate sono restate incompiute – e la costruzione di nuovi palazzi destinati al ceto medio alto, al centro e in collina, e alle fasce popolari in periferia. Alla vecchia dicotomia tra edilizia ordinaria e edilizia popolare si è aggiunta, così, quella per i ricchi e benestanti (i mini grattacieli, il Crescent, un mostro di novantamila metri cubi) e quella dei meno abbienti nelle periferie. Sicché, l’abitato, a fronte di una bellezza naturale e storica senza pari, sta perdendo la sua identità e tende a essere sempre più costoso e meno vivibile.

La città Rima d’inverno celebrata da Alfonso Gatto, il grande poeta salernitano, non c’è più, c’è quella descritta da Italo Calvino in una novella intitolata La speculazione edilizia (1957). L’ha ricordato da New York, attraverso la rete, l’otto marzo 2015, la figlia Giovanna. Al sindaco che aveva fatto stampare una locandina con una citazione del grande scrittore, ha replicato: «Citate impropriamente una frase di Italo Calvino, per giustificare la vostra operazione. Vi suggerisco una citazione alternativa, che riflette quella che era l’opinione di mio padre sull’argomento, e che sembra applicarsi quasi perfettamente al vostro caso: la febbre del cemento si è impadronita della riviera».

Più in generale, per comprendere in che cosa è venuta meno la politica urbanistica, valga la descrizione che Carlo Cattaneo fa della città dell’Ottocento: “Le nostre città sono il centro antico di tutte le comunicazioni di una larga e popolosa provincia; vi fanno capo tutte le strade, vi fanno capo tutti i mercati del contado, sono come il cuore nel sistema delle vene; sono termini cui si dirigono i consumi, e da cui si diramano le industrie e i capitali, sono un punto d’intersezione o piuttosto un centro di gravità, che non si può far ricadere su un altro punto preso ad arbitrio…..sono un centro d’azione di un’intera popolazione.”

È lo stralcio di un brano ben più articolato che, letto in un’assemblea, tenuta nel 1985 in occasione di un dibattito sulle periferie e il ruolo comprensoriale di Salerno, ispirò il programma della città con funzione medio metropolitana, complementare a Napoli. Progetto che fu, poi, alla base dell’incarico per il nuovo piano regolatore conferito a Orioli Bohigas, urbanista e architetto spagnolo. Dove si assumeva come guida e indirizzo il modello di comunità di Adriano Olivetti: “Non è più ormai possibile dissociare la pianificazione economica e sociale della pianificazione urbanistica. Questa divisione va respinta come un ostacolo alla creazione di una vera civiltà, che è armonia tra vita privata e vita pubblica, tra lavoro e abitazione, tra centri di consumo e centri di produzione, tra abitazioni e centri ricreativi, culturali, ospedalieri, assistenziali, educativi “.

Una scelta che individuava l’ideale nella simbiosi agostiniana tra Civitas – il vivere dei cittadini – e l’Urbs – le costruzioni che le ospitano. In cui spiccava, tra l’altro, la proposta di attrezzare Salerno come una Smart City, dotandola del cosiddetto “sistema nervoso artificiale“ che permette alle città di agire in maniera coordinata e intelligente. Si sarebbe dovuto articolare, a rete, lungo sei assi di riferimento: a) mobilità, b) qualità dell’ambiente, c) governance del sistema urbano, d) contesto economico, e) partecipazione alla vita sociale, f) vivibilità. Ma quel programma, nonostante la disponibilità d’importanti finanziamenti statali, non è stato coltivato: si è imboccata la strada di una trasformazione fondata sul costruire case più che servizi.

L’obiettivo da perseguire, dunque, è come interdire questa tendenza e promuovere la ricostruzione di un ambito urbano, che sappia coniugare la geografia dell’ambiente, la geografia dell’economia, la geografia della società, la geografia della Regione e la geografia dello Stato. Dove destino della cittadinanza e destino dei singoli tendano a coincidere: governare una città significa progettare la vita dell’io e del noi.

Invero, ciò che più colpisce della Salerno della Seconda Repubblica – l’urbanistica negata ne è un’espressione non secondaria - è la perdita di un tratto riguardante il modo di essere delle classi dirigenti, la parte della società dove è venuto meno qualcosa e qualcuno: l’uomo moderno con la sua ambizione e il desiderio di gloria. Sono subentrati, negando individualità e collettività, da una parte il potere del capo e dall’altra un ceto di seguaci, persone benestanti che cercano di accattivarsi la comprensione della politica inchinandosi. Una forma di declino sociale, fatto di paure e sottomissioni, abbagliato dalla credenza, alimentata da spot e dicerie, di una città trasformata in meglio senza rendersi conto delle ferite inferte all’ambiente, alla finanza comunale e al senso civico.

Di qui l’esigenza di una svolta a tutto tondo politica, alternativa ai processi decisionali solitari in atto da un ventennio, che sia in grado di scuotere e coinvolgere le coscienze, perché appare evidente come la lacerazione procurata al tessuto urbano non sia solo di tipo tecnico ma cultuale, economico e sociale. È una ferita che non si può curare all’ombra di slogan e artifizi, ma restituendo ai cittadini il diritto di promuovere la propria città con tratti di spiccata modernità, che non si specchi nelle sue case ma nel paesaggio vivente e nelle realtà circostanti. Al piano urbanistico va, quindi, assegnato non solo il compito di regolare il costruire, ma soprattutto quello di programmare gli spazi e interconnettere Salerno, come ambito sociale ed economico, con il suo territorio naturale: con Vietri, Cava dei Tirreni e la costiera amalfitana; con le frazioni Alte e San Mango; con Pellezzano, la Valle dell’Irno e Avellino; con Pontecagnano e i Picentini e l’aeroporto. Avendo cura di rilanciarne i servizi, in particolare quelli turistici, e di sviluppare la portualità con caratteristiche che non consentano il suo assorbimento nella complessità di quella di Napoli, ma ne accentuino la complementarità e il ruolo di riferimento; e ciò potrà avvenire se si darà seguito alla creazione di tre retri porti a servizio delle residue aree industriali salernitane: Agro Nocerino, Valle dell’Irno, Piana del Sele.

Un rammaglio del sistema produttivo e del trasporto merci che presuppone una revisione del Piano territoriale regionale, in cui si affermi uno sviluppo stellare con Salerno in funzione di centro rispetto ad altre realtà territoriali, in un quadrante urbano e sociale d’identità omogenee: la città dell’Agro, la citta dell’Irno, la città del Sele, la citta del Parco del Cilento.

L’urbanistica, è bene ricordarlo, non è mera tecnica di programmazione del costruire ma scienza di vita collettiva e volano di una memoria storica in movimento.

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