CALCIO

Virus, il dio denaro finisce in fuorigioco

Anche il “re calcio” d’improvviso si scopre nudo: rinviato il Consiglio federale, l’immediata ripartenza per ora è impossibile

Benvenuto sulla terra, “dio pallone”. Ché forse non sapevi che la tua “d” era un’iniziale minuscola. S’è riscoperto piccolo, “nostro signore” il calcio, nel sentirsi come uno dei tanti, trattato alla stregua d’un chioschetto qualsiasi a cui hanno abbassato la saracinesca aspettando che l’allarme ch’è diventato epidemia, e poi in fretta s’è trasformato in pandemia, la smetta di consegnarci ogni giorno il suo drammatico bollettino di morte. E così pure quel magnifico paradiso incantato che fa sempre storia a sé, “dove le regole non esistono” ed “esistono solo le eccezioni” come L’Ombelico del mondo di Jovanotti, ha capito che a volte non tutto si governa con il potere dei soldi, perché sull’altare d’un sistema che muove cifre spaventose si può sacrificare qualsiasi cosa tranne che la vita delle persone. Va da sé che il percorso per arrivare a questa cruda constatazione, che ha nel rinvio, deciso ieri, del Consiglio federale programmato per il prossimo 23 marzo il segno della resa (provvisoria), sia stato complesso e per nulla scontato. E qui la retorica dal “dai addosso ai potenti di turno” non vale, perché son stati gli scienziati per primi a farci cadere nella stucchevole dicotomia sul Coronavirus, ch’era per alcuni l’invisibile assassino che s’è poi rivelato e per altri qualcosa più d’una influenza di stagione con il carico d’un colpetto di tosse da fumatori incalliti. Alla vista della scelta, perché siamo un popolo di tifosi per vocazione e ci appassioniamo alla contrapposizione con gli altri, i signori del calcio non hanno avuto neppure un dubbio sulla loro squadra - pardon, tesi - del cuore, adottando ovviamente la facile profezia del “tanto rumore per nulla”. E allora avanti, “the show must go on”, e quando proprio la faccenda cominciava a diventare maledettamente seria, beh, ok pure alle porte chiuse, ché i colossi delle tv, che sono gli azionisti di maggioranza del Circus, avrebbero gradito lo stesso. Pure la politica, in proposito, ha cambiato idea - ed è stata costretta a farlo - nello spazio d’una notte. Ne è l’esempio emblematico il ministro per lo sport Spadafora che, dopo esser stato tra i 50mila del San Paolo a tifare Napoli in Champions (nei giorni delle vittime solo al Nord), è passato da una fascia all’altra come un esterno zemaniano a cui il boemo chiede di giocare a piedi invertiti. Così, il Governo, prima ha chiesto a Sky e Dazn di trasmettere le partite di serie A e B in chiaro perché gli stadi dovevano restare vuoti, rivendicando il ruolo sociale che il calcio poteva avere mentre la gente cominciava a esser bombardata dall’ordine di restare a casa (risposta delle pay tv prevedibile, perché sarebbe come pretendere dal salumiere che ti regali il prosciutto con la scusa dell’emergenza sanitaria), poi il mattino seguente ha urlato allo stop delle partite dopo aver discusso con Tommasi, il sindacalista dei calciatori. Alla lunga proprio l’Aic, sempre attivissima nel rappresentare un assordante silenzio tra i diretti interessati (professionisti che guadagnano milioni o centinaia di migliaia di euro se ne guardano bene prima di dire ai presidenti di turno “io non ci sto”), l’ha spuntata più o meno su tutta la linea, ottenendo di recente pure lo stop degli allenamenti visti i casi di positività tra gli atleti stessi che hanno portato a bloccare anche le competizioni europee. Tutti fermi, insomma. Nessuno si muova. Il calcio continua (solo) in conference call. Lì, raccontano non più i muri ma le webcam, Lotito e Agnelli litigano sul come e quando ripartire accusandosi l’un con l’altro. Che il patron di Lazio e Salernitana quest’anno lotti per lo scudetto e non voglia rinunciarci è storia nota, non meno del suo modo d’esser “capo d’azienda” nel mondo del pallone, eppure farlo passare per il cinico tra tanti disinteressati bravi ragazzi renderebbe la narrazione (molto) poco credibile. Del resto i primi che hanno invocato lo stop sono stati i primi pure a chiedere “aiuti allo Stato” per i danni quantificabili, mentre il presidente del Benevento, Vigorito, ha minacciato l’addio se il campionato di B non dovesse finire con la promozione della sua capolista in serie A, e perfino il presidente federale Gravina ogni giorno dà un’interpretazione nuova sugli scenari possibili. Si è passati, in 72 ore, dal “tutti in campo da maggio al 30 giugno” a un “potremmo arrivare a luglio”, fino ad arrivare ieri all’idea “d’unire due stagioni”. La verità, così evidente che non la si riesce a guardare, è che il “re pallone” è nudo e non potrà decidere un bel nulla se prima l’Italia non spegne le fiamme di quest’inferno che brucia anche il calcio. Il rinvio dell’Europeo itinerante, che sarebbe dovuto cominciare a giugno da Roma, è ormai inevitabile, finire i campionati una speranza ma che passerà per l’andamento della famigerata curva, che non è più quella “degli ultrà che canta in coro” ma l’evoluzione dell’epidemia ora nella sua fase ascendente. Dicono finirà tra un paio di settimane. Dicono... Dicevano pure ch’era una semplice influenza. Figuriamoci chi può dire - oggi - quando ripartirà il calcio. Benvenuto sulla terra, “dio pallone”. Ti ci abituerai...