«Il giornalismo sportivo? Più sincero che obiettivo»
Prima c’era il gusto per la scrittura: oggi piace più essere spiati che spiare
SALERNO. «Lo sport? Prima era romantico e snello. Oggi è obeso oltre che poco romantico». Roberto Beccantini è una delle grandi firme del giornalismo sportivo italiano; ma è anche uno che non ha mai nascosto la sua passione per la Juventus.
Come fa un giornalista a conciliare passione e professionalità?
Come diceva Alberto Cavallari, ex direttore del Corriere della Sera, è molto difficile raggiungere l'obiettività. Allora io mi accontento della sincerità, che è molto importante; e forse un po' più facile dell’obiettività. Credo sia difficile giungere all’Everest dell’obiettività; allora mi accontento del Monte Bianco della sincerità per rispetto nei confronti dei lettori, che sono poi tifosi.
Quanto è sincero oggi il giornalismo sportivo?
È molto difficile dirlo. Forse il problema è il nostro: puntiamo più ai tifosi che ai lettori. Bisogna far paura quando si scrive; invece mi rendo conto che spesso abbiamo paura. E l’autocensura è peggio della censura stessa. Abbiamo confuso la figura del lettore con quella del tifoso e viceversa. Il risultato è che ogni giornale si rivolge più alla pancia che alla testa di chi legge.
È uno scenario molto diverso dal passato?
Prima c’era più gusto per la scrittura. Una volta all'inviato si chiedeva “chi gioca?” e non “con chi va fuori chi gioca?”. Non dobbiamo tralasciare che oggi c’è il gossip, il pettegolezzo, il dietro le quinte che sembra quasi essere diventato una forma artistica. È un mondo che si rovescia: se a noi da ragazzi piaceva spiare, oggi, con i reality, ho la sensazione che piaccia essere spiati.
Sul finire degli anni Novanta lei, a proposito della presenza massiccia di tv e sponsor nel mondo del calcio, scrisse che avevano “invaso l’ultima Normandia di tutti noi poveri soldati Ryan da stadio, costringendoci ad aggiornare i manuali di sopravvivenza”. Oggi, a distanza di quasi venti anni, a che punto siamo?
Oggi, invece di trovare alternative alla tv, ci piace esserne schiavi. Con l’occupazione militare del web e della tv oggi la parola che prima era sacra è oramai anche troppo profana. Vanno bene i cambiamenti; a patto, però, che non ne risenta la qualità. Con i ritmi imposti dalla televisione, è molto più difficile essere bravi rispetto a un tempo. Ma dobbiamo anche dire che la tv aiuta: penso al ruolo di opinionista che sarebbe impossibile se non avessimo tutto in diretta. Il problema è che si dovrebbe riuscire ad andare oltre, magari anche realizzando inchieste.
Le inchieste potrebbero essere la soluzione ai problemi?
Ci vorrebbe una Gabanelli e un Report per lo sport: qualcuno che vada dentro lo sport e ne denunci il marcio. Io per primo mi sono adagiato; e alla mia età è difficile che riesca a recuperare terreno. In Italia, purtroppo, ci sono sempre meno editori puri. Pensiamo, per esempio, limitatamente al calcio, di chi sono i principali quotidiani italiani. Facile immaginare quanto sia difficile portare avanti un certo tipo di inchieste. Poi oggi c’è Federico Buffa; con lui lo sport ha trovato il suo cantore: è uno che racconta le storie vecchie, esplora il passato e lo colora con una classe infinita.
Tra i giornalisti sportivi del passato chi è il maestro per eccellenza secondo lei?
Gianni Brera vince su tutti per distacco. Ha forgiato un linguaggio che usiamo tutti noi ancora e che non è per nulla simile a quel linguaggio scimmiottato che parla di “pressing alto", “pressing avanzato”... Ma avete notato che oramai nessuno parla più di “sinistro”? Esiste solo il “mancino” che è un surrogato, un silicone di “sinistro”. I termini di Brera, invece, non hanno surrogati: esistono e basta e noi li usiamo ancora.
Quanto è cambiato il calcio negli anni sotto i suoi occhi?
Ha molte più tentazioni. Prima lo sport finiva quando finiva la partita. Oggi comincia dopo e molto prima. L’indotto ha quasi strangolato tutto.
Lei tiene un blog che definisce una clinica pubblica per i malati di calcio. Ma oggi il calcio è più passione o malattia?
È passione diventata religione, che ha dato luogo a guerre e a una serie di patologie che oggi spingono verso la malattia. L’Italia è un Paese calcisticamente malato. Ognuno ha il suo dio da difendere e attaccare. La squadra di calcio è intesa come campanile, come senso di onore, di appartenenza.
È stato per anni nella giuria per l’assegnazione del Pallone d’oro. Ha mai avuto il sentore di pressioni?
Solo grandi discussioni in redazione e qualche telefonata al giornale del semplice tifoso. Pressioni no.
Chi, secondo lei, negli anni, avrebbe meritato il Pallone d’oro e non lo ha vinto?
Maradona nel 1986: non si poteva votare perché non europeo. Ma penso anche a Tardelli, Scirea, Maldini... Però corro il rischio sicuro di dimenticarne qualcuno.
Il vero campione nel mondo del calcio: chi è?
Maradona è il massimo. Ma dico anche Alfredo Di Stefano, primo grande che ho conosciuto nel salotto di casa a Bologna con le prime telecronache Rai: sapeva fare di tutto, un direttore d’orchestra e un violinista al tempo stesso. E poi Sivori, il vizio, il motivo per cui sono diventato juventino.
Barbara Ruggiero
(10 - continua, le precedenti puntate il 9, il 16, il 23 e il 30 gennaio; il 6, il 13, il 20 e il 27 febbraio; il 6 marzo)
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