IL RICORDO DEL 24 MAGGIO

Il far memoria che dà un senso “al giorno di dolore che uno ha”

È la data che segna la storia, forse la cambia

“Il giorno di dolore che uno ha” è una cicatrice nella memoria che ti sanguina dentro. Pure 24 anni dopo. Salerno, 24 maggio 1999. È la data che segna la storia, forse la cambia. Nel pallone, certo. Ma mica soltanto. Ché il ricordo di Simone Vitale, Enzo Lioi, Ciro Alfieri e Peppe Diodato è molto più d’una scheggia tagliente legata al calcio, alla Salernitana. È il ritrovarsi nella riflessione d’una comunità intera, d’un popolo innamorato della sua squadra e che però quel mattino capì quanto l’eccesso, l’esasperazione e la follia potessero far male. Da morire. “Il giorno di dolore che uno ha”, come quella dolcissima e malinconica canzone, è un viaggio in un tempo passato e incancellabile, tremendamente condiviso seppur personalizzato da ciascuno. Ognuno ce l’ha impresso, dentro di sé, a modo proprio. Chi era appena tornato da Piacenza. Chi stava ancora per farlo. Chi aveva (ri)cominciato la sua settimana in quel lunedì che pareva, dopo la retrocessione granata dalla serie A, il più insostenibile della propria vita. Già, la vita. Che mostrò d’esser tutt’altra cosa. Tutti avevano pianto, al tramonto di quella partita in Emilia che aveva restituito la Salernitana alla B lasciando a terra i cocci d’un sogno durato neppure un anno. “Il giorno di dolore che uno ha” si materializzò al risveglio, alla stazione di Salerno. Il treno “speciale”, che riportava a casa quasi 2mila tifosi dopo un viaggio bestiale, in fiamme. Il fumo, le urla, la paura. Un incubo. L’inconsapevolezza nell’immediato della tragedia che s’era consumata pochi attimi prima. Il vagone numero 5 a fuoco, quattro giovanissimi bruciati nel fiore degli anni. Morti. Senza un perché. Erano partiti come altre migliaia di “fratelli” granata per sostenere la Bersagliera. Non sono mai più tornati a casa. Uccisi a pochi metri dalla loro città, dopo una notte d’inferno, interminabile e tormentata, di cui neppure cronache e giustizia hanno mai raccontato tutto sino in fondo. “Il giorno di dolore che uno ha” è un’ossessione inquietante che ha già attraversato generazioni di salernitani. E quei nomi, di Simone, Enzo, Ciro e Peppe, hanno accompagnato il perenne ricordo d’una pagina così assurda che a (ri)pensarci oggi, a quasi un quarto di secolo di distanza, nessuno si spiega come sia stata possibile. È un ricordo che non dà pace. Né mai ne darà. Impossibile, per chiunque ami il calcio e la maglia granata. Perché morire ragazzini, morire per una passione, è quanto di più inaccettabile possa esistere. “Il giorno di dolore che uno ha” nella Salerno che s’è finalmente presa la dimensione pallonara della serie A, e che si sente adesso nel cuore nei suoi anni migliori, è un monito fortissimo alle coscienze di ciascuno, nell’intimo d’ogni tifoso e nella condivisione della memoria collettiva. È la lezione più cruda e vera che la storia abbia saputo consegnare a un popolo che da quel lunedì del 1999 non ha mai smesso di piangere i suoi ragazzi, di ricordarli, di onorarli, e che però dovrà continuare a impegnarsi, incessantemente, per rendere quell’orrore un insegnamento in ogni momento in cui la vita, il calcio e l’attaccamento alla propria squadra tirano fuori i loro volti peggiori. È così che il far memoria dà un senso al “giorno di dolore che uno ha”…

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