L'INCONTRO

Viviano: "Io, killer mancato L'attimo che ha cambiato la mia vita"

Il giornalista di Repubblica ha presentato alla Feltrinelli il libro sulla storia della sua giovinezza in quartiere di Palermo

SALERNO. Nascere e vivere nell’inferno di certi quartieri, dentro le cui pance un giovane sembra possa essere destinato a null’altro che alla perdizione, può essere una condanna. A volte, questa condizione partorisce miracoli. Il filosofo Emil Cioran scrisse che «siamo tutti in fondo a un inferno, dove ogni attimo è un miracolo». Quell’attimo è stato il miracolo che ha cambiato la vita di Francesco Viviano, che da potenziale assassino è diventato uno dei più grandi giornalisti italiani.  Alla Feltrinelli di Salerno, è stato presentato  il suo nuovo libro pubblicato per Chiarelettere, “Io, killer mancato”, in cui racconta la sua storia: dal ragazzino dell’Alberghiera al quale hanno assassinato il padre, al momento in cui decide di vendicarsi; dall’inizio della sua carriera giornalistica alle grandi inchieste come quelle su Bernardo Provenzano, gli anni delle guerre di mafia a Palermo, l’incontro con Vito Roberto Palazzolo. Durante l’incontro l giornalista di “Repubblica”  ha dialoato con i lettori insieme al direttore de “la Città” Enzo D’Antona ed allo psichiatra e scrittore Corrado De Rosa.

La data che ha cambiato la sua vita è 26 marzo 1966. Si può parlare di conversione, trasformazione, miracolo?

«Lo chiamerei miracolo, perché bastava un secondo per decidere della mia vita e della vita di colui che aveva ammazzato mio padre. Avevo l’intenzione di uccidere l’uomo che 17 anni prima mi aveva reso orfano. Frequentavo l’Istituto Nautico ma mia madre non aveva più soldi per sopravvivere: lasciai la scuola. Attribuii queste mie disgrazie all’assassino di mio padre. Presi una pistola che mio nonno deteneva illegalmente. Cominciai a pedinare l’uomo. Mi presentai sotto casa sua. Fortunatamente per lui e anche per me, l’assassino di mio padre uscì con un bambino in braccio, bambino come lo ero stato io quando a 13 mesi mio padre morì a colpi di fucile in testa. Dito sul grilletto, stavo per sparare. Mentre puntavo la pistola, questo bimbo mi guardò negli occhi. Ebbi un momento di smarrimento. Stavo per lasciarlo orfano. Quello sguardo è stato la svolta».

Cosa significa crescere in quartieri come quelli dell’Alberghiera?

«Bisogna avere bravura e fortuna per scegliersi il proprio destino. Molti miei ex amici sono morti ammazzati. Alcuni di questi li ho incontrati durante il maxiprocesso. Io facevo il giornalista, loro erano dentro le gabbie insieme a Luciano Liggio».

Quando ha cominciato a fare il giornalista?

«Mia madre faceva le pulizie all’agenzia Ansa di Palermo. Avevano bisogno di un fattorino. Chiesero se ero disponibile. All’epoca pulivo le vetrine di un negozio di pelletterie con i giornali. Cambiai vita. L’Ansa era frequentata dai più grandi inviati delle testate nazionali. Iniziai anche io a scrivere, su un giornale di ciclismo».

Quanto è stato importante, per il suo lavoro, crescere in strada?

«La strada è stata la vera università. Una scuola di giornalismo. Vedevo i miei compagni che facevano rapine, svaligiavano. Avrei dovuto partecipare anche io ad una rapina, poi non accadde: pensai che se mi avessero arrestato o ucciso, mia madre si sarebbe suicidata».

Com’era lavorare nella Palermo della mattanza, negli anni ‘70 e ‘80?

«Era un Vietnam. Il giornale “L’Ora” pubblicava quotidianamente i numeri dei morti».

La paura peggiore in quei momenti?

«Cosa Nostra aveva deciso di ammazzarmi, perché stavo facendo un’inchiesta sull’uccisione di Cesare Terranova. Ma la paura maggiore era l’ambiente dei colletti bianchi, i collusi con la mafia. Abbiamo avuto più paura a casa nostra, che non quando siamo stati in Afghanistan o in Iraq».

Come è cambiato il giornalismo negli ultimi anni?

«Questo lavoro o lo fai perché ti piace o non lo fai. L’informazione oggi troppo spesso è fatta di comunicati stampa. Ma se non hai la curiosità di scavare sotto la notizia, non fai più il mestiere di segugio. Su Provenzano, ad esempio, ho lavorato due o tre mesi. Tassello dopo tassello conquistai la stima di alcune fonti che mi diedero il primo identikit di Provenzano, pubblicato in prima pagina. Mi costò una delle mie tante perquisizioni: ne ho subite più di 80».

La Palermo di ieri e di oggi?

«C’è un cambio di mentalità. La mafia non dico che è scomparsa ma non ha più quel peso specifico che aveva una volta. Adesso la vera mafia è la ‘ndrangheta, che controlla il monopolio assoluto degli stupefacenti. Alle nuove generazioni dico che i mafiosi non sono che sfruttatori del prossimo. Come diceva Falcone, la mafia ha avuto un inizio e avrà una fine».