L'intervista

«Vi racconto il mio Marco, poeta sfuggente»

Rosellina Mele, mamma dell’intellettuale, rompe il silenzio: «Amava il disegno e la lettura, e aveva una feroce sensibilità»

SALERNO. Inutile affannarsi. Non provate a prenderli, i poeti, perché come sosteneva Alda Merini, vi scapperanno via tra le dita. Non tentate di spiegarli, i poeti, di imbrigliarli nella logica, di rileggerli in sottotraccia. E soprattutto, non sforzatevi di ricordarli: sono qui, vi respirano sulla nuca e tra i capelli, mentre con le dita, ne sfogliate le parole.

«Mio figlio era sfuggente». È la prima volta che Rosellina Mele parla di suo figlio Marco Amendolara, poeta, critico letterario e d’arte, traduttore di poesia latina. Da quando quel ragazzo gentile ha deciso di uscire di scena, in punta di piedi come aveva vissuto, sono passati otto anni. Nel suo studio, sospeso tra il cielo che abbraccia il castello, i tetti rossi del centro storico e piazza Sant’Agostino, tutto, o quasi, è rimasto com’era. Sospeso, in quell’inquietudine antica propria «del ragazzo che sei stato», quello che «ti guarda dai tuoi occhi credendosi inosservato». Un’ortensia ingiallita. Un uccellino di ceramica turchese. Due acquasantiere. Un paesaggio rosso d’autunno. Il ritratto della governante guerriera. E ciotole di ceramica, sassi che profumano di mare, disegni, schizzi e libri, milioni di libri. I gialli impilati su un cavalletto; Tiepolo, Parmigianino e Delacroix stretti in un angolo, tra cartelline, appunti, ritagli e qualche fotografia.

C’è quella con Barbara Alberti, Marco ha lo sguardo acceso: «Era giovanissimo quando la conobbe in occasione della presentazione di un suo libro – racconta Rosellina Mele – Lei si legò molto a lui, rimase sorpresa dalle sue domande. E diventarono amici». Era un giovane bellissimo, lo ricorderà lei in una lettera inviata ai genitori qualche giorno dopo la sua morte. E «unico, forte, mai arrogante, coraggioso senza essere aggressivo e generoso, di una generosità meravigliosa, spontanea, elegante». Di una grazia inafferrabile, come appunto lo è quella dei poeti. «Marco ha iniziato a scrivere prestissimo – dice la madre – Aveva una sensibilità acuta e fin da piccolo riusciva a cogliere sfumature sorprendenti. Mi ricordo che una volta, la sua insegnante delle elementari, confessò di essere in difficoltà per le domande che lui le poneva». La curiosità e il gusto per la lettura lo portano a incontrare Calvino. E poi le icone Rimbaud e Baudelaire; la lineare italiana di Dante, Leopardi e Zanzotto; Luzi e Raboni, con lo sguardo perennemente volto agli epigrammisti latini, di cui sapeva reinterpretare il linguaggio nel segno della contemporaneità.

Nel cuore, i gialli, tutti, e il desiderio di recuperare le tracce noir di quegli scrittori che, agli esordi, in quel genere si erano rifugiati, con un sorriso per Totò e i fumettisti, Jacovitti su tutti. «Vede quella parete? Lì c’era una stampa di Mandrake. Forse era il suo ideale, avrebbe voluto essere forte come lui». Ma la sua forza, è un’altra: «Aveva un incredibile ventaglio di interessi. Non appena racimolava qualche soldo andava a comprare libri, sono stati da sempre la sua passione. E poi il disegno. Guardi qui – dice indicando una tela – Questo presepe lo ha realizzato quando stava ancora alle elementari». La natività è ai margini di un circo felliniano in cui le figure, fluttuano sospese sulla superficie, come se stessero danzando. «Disegnare gli piaceva molto. Aveva un quadernone per studiare la musica e vicino ai brani di ogni autore, c’era il suo schizzo. Era creativo e mai superficiale, purtroppo. La sua sensibilità era corrosiva, logorante, obbligava a uno scavo continuo». E quando scavi, con la consapevolezza che «puoi gridare quanto vuoi: nessuno potrà liberarti di te stesso, o rinchiuderti in te», la falsità, non riesci più a guardarla negli occhi. «Era leale, per questo spesso ferito. Se oggi guardo, a ritroso, i titoli delle sue opere, è evidente il segno di un percorso tormentato: L’amore alle porte, La passione prima del gelo, Il corpo e l’orto». Sollevare zolle, a volte, ti rende invalido: «Non amava muoversi. Una volta gli dissi che mi ricordava Morandi, il pittore. Ero stata a Bologna per vedere una sua mostra e mi colpì che gli stessi paesaggi erano rappresentati attraverso prospettive diverse, come se non si fosse mai spostato dai quei luoghi. Lui mi sorrise e mi disse: mamma, qui sto bene».

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