il libro

San Matteo in dialetto, un'originale rilettura del Vangelo

Mario Farina, l'autore del testo è partito da un dato storico: Gesù parlava l'aramaico, l'antica lingua del popolo ebraico

SALERNO. “Partuto ’a llà, Ggiesù vedette a n’ommo, nu certo Matteo, ca steva a ’o bbanco d’e ttasse assettàto e nce dicette: Viéne!. E cchillo s'aizaje e nce jette appriesso”. E’ il celebre brano della chiamata di San Matteo, reso in vernacolo da Mario Farina. Lo scrittore salernitano ha appena terminato e dato alle stampe la versione poetica integrale in napoletano del testo sacro del Nuovo Testamento: “’Vangelo ’e San Matteo” (Edizioni NoiTre 2016, pagg. 280- euro 15). Se Luciano De Crescenzo nel suo “Gesù è nato a Napoli”, ha ribadito la vocazione napoletana al presepe, Farina si è spinto oltre, provando ad immaginare un Gesù che parla l’antica lingua partenopea. Il libro - presentato l'atra sera nella sala San Tommaso del Duomo di Salerno - si compone di due parti. Nella prima si compie un itinerario storico-religioso, seguendo il percorso compiuto delle reliquie del patrono salernitano, da Velia al Capoluogo, «in un itinerario di fede – spiega l'autore nell'introduzione – che muove i primi passi dal ritrovamento dei resti mortali dell'Evangelista nella piana di Casal Velino.

Tutto parte dalla Cappella di San Matteo ad duo flumina, per passare attraverso Rutino, Capaccio e la sua Madonna del Granato, e fino ad arrivare a Salerno nella maestosa Cattedrale voluta dal normanno Roberto il Guiscardo». Non manca il riferimento alle tradizioni storiche salernitane, come la festa della traslazione delle reliquie di San Matteo, recentemente ripresa dal nuovo parroco della cattedrale, don Michele Pecoraro. «Per volontà di Gisulfo I – ricorda Farina – i resti mortali del Santo furono portati a Salerno il 6 maggio dell’anno 954, accolti gioiosamente dallo stesso Principe, dal Vescovo della Diocesi di Salerno Bernardo II e da tutto il popolo salernitano in festa, che agitava fasci di fiori. In ricordo di quel giorno ogni anno, nella notte tra il 5 e il 6 maggio, dalle parrocchie del centro storico si muovevano in processione i fedeli verso la Cattedrale per offrire all'Evangelista fasci di fiori». E’ l'antico rito che veniva chiamato dei “columbri”. Il libro offre anche una sintetica storia del Duomo, prima della seconda parte con il Vangelo reso in napoletano.

L’autore, fuori dalle righe del testo, ammette di essere stato mosso anche da un dato storico incontrovertibile: «Gesù parlava l’aramaico, che era l’antica lingua del popolo ebraico, una lingua popolare che entrava di più nel cuore della gente rispetto al greco. Per questo ho voluto provare a portare a tutti, attraverso la lingua napoletana, il messaggio di Cristo». Un intento sottolineato anche dal professore Francesco D'Episcopo nella sua prefazione al volume: «Era insomma giusto che Mario Farina, figlio autentico del cuore del centro storico della città dedicasse al suo e nostro Santo questo tributo in quella lingua napoletana, che egli pratica da sempre nella sua ampia e articolata produzione poetica. Il tutto, scandito dagli splendidi avori e dipinti, conservati nel Museo diocesano, che illustrano il volume».

E se è vero che ogni traduzione è sempre una riscrittura, Farina, come sottolinea D'Episcopo, lavora alla versione con tutto il suo fervore poetico: «Bisogna dire che Matteo aiuta molto il poeta ad addomesticare il Vangelo a una realtà, familiare e quotidiana, particolarmente sentita dal poeta Farina, perché non bisogna mai dimenticare che egli è un poeta vero, il quale si misura con il mistero e la realtà del santo Vangelo».

Non quindi una semplice traduzione in vernacolo ma una vera versione - fedele al testo - che sottolinea gli aspetti lirici del messaggio evangelico. «Il poeta Farina – aggiunge D'Episcopo – si lascia trasportare dal racconto in versi di una vicenda, certamente eccezionale, ma che egli sa rendere umanissima, ricca di pathos». I passi degni di nota sono tanti, a cominciare dalla definizione dei cristiani come sale e luce della terra: “Vuje site ’o ssale d’a terra, però si ’o ssale se fa nzípeto, neh, comm'o nzapuríte po 'o mmagnà?». L'abbandonarsi alla Provvidenza è un altro tema evangelico di grande forza poetica, nell’invito a fare come gli uccelli del cielo ed i gigli dei campi: «E ppecché v'affannate p’o vestito? Guardate comme crésceno ’e ggiglie dint'ô campo».