Salerno nell’epoca del regime

Fasci littori e simboli dell’architettura che hanno disegnato l’edilizia pubblica

di Barbara Cangiano

SALERNO

Può, la riproposizione iconografica di un simbolo forte del regime, come i . fasces lictorii dell’antica Roma, “odorare” di fascismo? Può, la scelta di una cifra filologicamente improntata allo spirito del luogo, avere - ed offrire - una connotazione politica? Al di là delle polemiche che dividono intellettuali, partigiani e nostalgici di quell’epoca buia, i quattro fasci stilizzati che lo studio di architettura Asnova vorrebbe riproporre sulla facciata dell’ex cinema Diana, non sono gli unici presenti in una città dove, tra il 1925 ed il 1936, comparve sulla scena una edilizia pubblica prima inesistente, lamentava nel 1919, l’allora assessore comunale Giovanni Cuomo, denunciando «la mancanza pei pubblici uffici di edifizi proprii». Vent’anni dopo - era il 1940 - l’ultimo podestà di Salerno, Manlio Serio, con i toni tipici della retorica di regime, invitava ad abbracciare Salerno con uno sguardo panoramico, per rimanere stupiti «dalla somma di opere compiute», ricorda Vincenzo Dodaro nel volume “Salerno durante il Ventennio”. Accanto alle lapidi celebrative che ancora si rincorrono in diversi angoli (vedi via Fieravecchia), i contestati fasci compaiono anche sulle cancellate di via Porto, nel tratto che va dal circolo Canottieri alla spiaggia. Un simbolo che rimbalza da una fontana pubblica di via San Leonardo, alle scanalature che contraddistinguono la fontana di piazza Alario o un vecchio serbatoio dell’acqua in via Dalmazia.

Ferite di un passato da cancellare, ma anche testimonianze di una storia che è esistita. Come l’orologio di Palazzo Sant’Agostino, che reca tra le lancette l’indicazione del sesto anno dell’era fascista. Come la facciata monumentale di Palazzo di Città (realizzato tra il 1936 ed il 1938 dall’architetto Camillo Guerra), ripulito dalle accette, o l’intero edificio della Prefettura, ex Casa littoria, spogliato da pitture ed altorilievi che caratterizzavano la struttura progettata nel 1941 da Alfonso Amendola per celebrare il XV anno dell’era fascista.

Nel perimetro del piano Donzelli-Cavaccini, approvato nel ’25 dopo oltre un decennio dalla sua stesura, in considerazione di un notevole incremento demografico, «il centro urbano comincia ad assumere ruoli e funzioni diverse rispetto al vasto territorio provinciale, assumendo una nuova immagine, specialmente nella città con gusto liberty», si legge in “Salerno città moderna” di Giovanni Giannattasio. Tralasciando l’edilizia popolare, il ridisegno della rete stradale, la realizzazione del lungomare Trieste, l’edilizia pubblica ebbe una esplosione che trasformò Salerno «da città ottocentesca chiusa ancora nelle sue mura abbattute» (Dodaro), in città moderna. Nel 1925 vede la luce la Casa del combattente, tra il ’26 ed il ’28 l’architetto Matteo D’Agostino firma, in stile coppedè, Palazzo Santoro, sempre nel ’28 s’inaugura Palazzo Sant’Agostino, mentre l’anno prima tocca alla Camera di Commercio pensata da Arturo Gasparri. Nel ’32, invece, fu edificato il Vestuti, destinato ad ospitare l’Unione sportiva fascista. Qualche anno dopo, tra il ’36 ed il ’41, ecco Palazzo di Città, con la trionfale scritta Potestatis civium sedes, l’Augusteo e la Prefettura, solo per citare gli edifici principali che ancora oggi, sebbene nelle linee rese più snelle dai restauri che si sono avvicendati, portano nella loro impalcatura, il segno inequivocabile del linguaggio architettonico che il regime scelse per “smuovere le masse”.

A Salerno giunse solo un’eco di quel Gruppo 7, poi Miar che vide protagonisti un gruppo di architetti del Politecnico di Milano, vicini ai costruttivisti russi ed al Deutscher Werkbund. Ma la tensione ad una classicità «intesa non come riferimento mimetico ad un determinato periodo storico (...) ma in senso atemporale», commentò Ignazio Gardella a proposito della Casa del fascio di Como, fu l’aria culturale che respirarono anche Roberto Narducci, che nel ’32 consegnò ai salernitani il palazzo delle Poste e telegrafi o Pasquale Marinari, a cui si deve, a partire dal 1930, il Consorzio fascista peschereccio campano. L’uso del marmo cupo e grandioso, le strutture geometrizzate che alludono al “ritorno all’ordine”, la dilatazione delle finestre, gli ingressi concepiti come piccoli templi, portarono in piccolo in città, una soffio di razionalismo, nato per seguire una matrice funzionalista, poi ingabbiato in una politica celebrativa a carattere propagandistico.

L’abolizione dei legami con il passato, il recupero degli elementi classici in chiave nazionalista, il potere che si specchia nel suo travertino, sono indizi che è facile cogliere nel disegno del centro urbano. In particolare lungo l’asse di via Roma, fino al Verdi, alle cui spalle, l’ex Casa del Balilla, potrebbe riavere i suoi antichi fasci senza accetta. Un’idea progettuale che - nonostante, o forse proprio in considerazione dell’alto numero di simboli del ventennio presenti in città - fa discutere e divide. Da una parte i partigiani dell’Anpi che hanno alzato un muro, dall’altra l’associazione Tradizione e Futuro che rivendica la necessità di valorizzare il patrimonio architettonico di quegli anni, in barba ad ogni iconoclastia politica. «Se si è contrari ai fasci littori sulla facciata del Diana - tuonano gli attivisti - si svuotino anche i palazzi che oggi accolgono le istituzioni democratiche e repubbliche». «Si fosse trattato degli originali il discorso sarebbe stato diverso. Rimuovere i simboli del fascismo non significa cancellarlo - scrive il segretario del Museo dello Sbarco Eduardo Scotti - Conservarne i ridicoli, patetici e mostruosi segni rinnoverebbe la condanna nei confronti dell’atroce Ventennio. È piuttosto da evitare di esporre dei falsi, degli oggetti non di epoca ma rifatti, perchè avrebbe un pò di odore fascista».

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