grande architettura

Salerno al neon nel segno di Kosuth

L’artista scelto 15 anni fa per un’opera da inserire nella Cittadella, ieri ha visitato il cantiere

di BARBARA CANGIANO

Una sedia di pelle nera. Che a bordo Lungoirno diventa laboratorio mobile di visioni. Per incentivare la creatività e le sue declinazioni, ma anche per studiare nuovi campi prospettici. Sopra, c’è seduto un uomo di nero vestito: bastone, cappello, occhiali tondi, barba canuta da rockstar che non ha perso lo smalto di un tempo.

È l’artista statunitense Joseph Kosuth, il padre dell’arte concettuale, l’uomo che ha deciso di rivoluzionare il concetto di percezione nel mondo dell’arte, sostituendo l’antica “aisthesis” con la tautologia e la logica strappata a un pensiero filosofico multiforme, che da Wittgenstein arriva fino a Baudrillard.

Come in un amarcord dell’opera che lo ha reso famoso, “One and three chairs”, con cui nel 1965 decise di rendere iconicamente il concetto di forma platoniana, raffigurando una sedia, la foto di una sedia e il testo di un dizionario con la definizione di sedia, Mr. Kosuth, accompagnato dall’assessore all’urbanistica del Comune di Salerno Mimmo De Maio, ha voluto osservare così, da seduto, le linee geometriche con cui David Chipperfield ha progettato la Cittadella giudiziaria. Il coronamento di tutti i corpi di fabbrica, porterà la sua firma, per raccontare la legge, il suo peso, le sue contraddizioni, la sua storia e il suo futuro, attraverso quel neon che dagli anni Sessanta è diventato la sua cifra stilistica, per «la fragilità che lo rende più simile alla scrittura».

Era il 19 novembre del 2001 quando la commissione istituita dal Comune di Salerno per la selezione di opere d’arte da inserire negli uffici della Cittadella selezionò tre progetti: il Faro della Giustizia di Ben Jakober e Yannich Vu, tre video sul processo ingiusto alle idee di Franco Scognamiglio e una catena di citazioni al neon firmate da Kosuth: la sua idea progettuale, che sembra rimandare agli “Ex libris” con cui nel 1990 aprì ufficialmente la porta al movimento dell’arte pubblica, conquistò gli addetti ai lavori e lo stesso Chipperfield, per la capacità di integrarsi «totalmente nell’opera architettonica, evidenziando un momento di alta riflessione civile del concetto di legge – si legge nei verbali della commissione – senza cesura tra clima diurno e notturno». Una provocazione ormai ampiamente metabolizzata, nel segno della trasformazione della ricerca artistica in un’indagine, più profonda e articolata, del significato stesso dell’arte, con una metodologia che ancora oggi sembra guardare con insistenza ai principi di quel “Tractatus logico-philosophicus” da cui l’artista, giovanissimo, si fece rapire.

Al suo fianco, Lia Rumma, la signora indiscussa dell’arte contemporanea, amica fedele e gallerista di riferimento, capace, negli anni, di creare un potente legame tra Kosuth e Napoli. In quel reticolo iniziato a tessere nel 1971, con “L’Ottava Investigazione”, opera che nel capoluogo campano inaugurò la galleria Rumma e, contestualmente, il rapporto di lungo corso dell’artista con la città, Salerno tentò di infilarsi già nel 2001, sfruttando le opportunità offerte dalla legge 717 del 1949, che prevede l’inserimento obbligatorio di opere d’arte negli edifici pubblici.

Oggi, dopo quindici anni, la presenza di Kosuth in città (l’artista ha incontrato anche il sindaco Vincenzo Napoli, prima di rientrare a Napoli dove, alla Federico II, ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Scritti pubblici, testi rubati”) fa riaccendere la speranza che i suoi neon non restino solo un disegno su carta.

Magari prima dell’anno prossimo, quando l’Italia lo celebrerà ancora con una grande mostra.

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