LA STORIA

Roccagloriosa, il paese che fu dipinto di bianco per protesta

Nell’agosto del 1967 gli abitanti colorarono le loro case per richiamare l’attenzione del governo sulle rovine e la miseria

ROCCAGLORIOSA - Dipinsero, per protesta, le case e il paese di bianco. Nell’estate del 1967 gli abitanti di Roccagloriosa attuano nel suo genere una singolare, unica, inedita e pacifica protesta del Mezzogiorno contadino dimenticato. L’iniziativa si realizza intorno al 10 agosto e richiama l’attenzione della stampa nazionale. La Giunta municipale del piccolo Comune, nella seduta straordinaria del 24 luglio - presieduta dal sindaco democristiano Giovanni Tambasco - constatato «che la quasi totalità dei fabbricati sono privi di intonaci e lasciano a desiderare esteticamente», tra poesia e protesta sociale, all’unanimità delibera di chiedere agli abitanti di impegnarsi a: «Dipingere di bianco tutto il paese, arroccato sul suo collo aprico da cui spazierebbe alla vista lontano, come una bianca colomba, oggetto di ammirazione ai passanti, attrattiva ai turisti, motivo di soddisfazione agli abitanti duramente provati dalla miseria, dal bisogno e dal pericolo di frane. Che tale iniziativa è un tangibile segno di amore per questo nostro paese percolante e vuol dire affermare una dignitosa pulizia in mezzo alla miseria, richiamare l’attenzione sui nostri bisogni e dimostrare la nostra fiducia in un avvenire migliore». Il 10 agosto il “Corriere della Sera” informa che il “paesetto” e i duemila abitanti hanno deciso di dipingere di bianco il paese «in segno di protesta, per richiamare l’attenzione delle autorità sulle sue criticissime condizioni economiche e igieniche».

L’11 agosto l’associazione Castelli del Cilento su “La Stampa” scrive che per opporsi alla lenta morte che minaccia i paesi, dove gli asili si trovano nelle stalle, Roccagloriosa, che si snoda a forma di colomba, reagisce alla sua lenta rovina ricorrendo alla pittura e dipingendosi - come forma di fiducia e di protesta - di bianco, con le ali aperte. Il 13 agosto il “Corriere della Sera”, con un lungo articolo di Crescenzo Guarino, riferisce che il paese, amministrato da democristiani e socialisti, diventa bianco per attirare anche di notte l’attenzione dell’opinione pubblica sull’abbandono, sulle incredibili condizioni igieniche, sulla povertà e sull’arretratezza, che descrive. La via che porta al paese è di terra battuta e diventa fangosa d’inverno e polverosa d’estate. I due cimiteri sono lontani e collocati su «paurosi dirupi» e le bare bisogna portarle a spalla lungo un torrente impervio. Non esiste l’ambulatorio: il medico condotto e l’ufficiale sanitario si servono di una sola, unica vecchia sedia per dentista trovata vent’anni prima in un campo di soldati americani e serve per tutti: dai feriti alle partorienti. Per l’ospedale bisogna andare o Vallo della Lucania o a Maratea; uno anche fuori regione, entrambi a 60 chilometri di curve e controcurve. I tuoni hanno ucciso numerosi cittadini ed è stata fatta una colletta per installare un parafulmine per il quale servono due milioni. L’impianto elettrico lascia a desiderare ed è pericoloso. L’unico spazzino viene pagato solo d’estate e quando non lavora il paese è sommerso dai rifiuti. Non c’è lavoro, gli abitanti emigrano in America, Australia e in Africa. Il comune è franoso, nei comizi politici e nelle lettere i parlamentari hanno promesso 700 milioni, ma ne sono stati dati appena 10. Il prefetto di Salerno, Luigi Damiani, ha concesso 450mila lire per dipingere le case, un’impresa di costruzioni ha offerto la calce e gli abitanti il proprio lavoro. Il sindaco giustifica il colore scelto: «Il rosso era inopportuno, potendo far nascere equivoci di carattere politico; il nero doveva essere escluso, perché avrebbe accreditato la nostra amarezza; il verde è il colore della speranza e noi, dopo aver tanto atteso, non speriamo più niente; il giallo sa di malattie epidemiche».

I colori rosa, azzurro e celeste «sono tonalità liete e noi siamo tristi. Rimaneva il bianco, che ha il doppio vantaggio di essere più economico e di venire meglio notato». Vittorio Lojacono ne parla sulla “Domenica del Corriere” del 29 agosto 1967: il sindaco, la guardia comunale, i ragazzi, i pensionati - per mancanza di strade che non permette posti di blocco - spruzzano calce sulle facciate, sui portoni, sulle finestre. «Vogliono un paese tutto bianco» per protestare, per far sì che «i signori di Roma» si ricordino dei loro bisogni elementari. La Cassa del Mezzogiorno, «forse per fare dell’ironia», classifica il paese d’interesse turistico. I guai sono iniziati con i crolli nel 1946 e dalla perizia tecnica risultò che il paese non era sicuro. Quando nel 1955 il governo assegna un contributo di 700 milioni per la demolizione delle case pericolanti, le campane suonarono a festa, ma ne sono arrivati solo dieci e gli altri 690 si sono persi per strada. Gli abitanti dicono che «quelli per costruire non arrivano mai!». E pitturano di bianco il paese. Naturalmente non tutti ubbidirono imbiancando i muri delle case: la nonna di un attuale consigliere comunale si oppose alla richiesta del sindaco. Non risultano interventi dei parlamentari democristiani dell’epoca, il senatore Basilio Focaccia e l’onorevole Nicola Lettieri, che pure era della vicino e confinante Rofrano. Né dei deputati socialisti Lucio Mariano Brandi di Sapri, ed Enrico Quaranta del Vallo di Diano.