IL RACCONTO

Quelle voci nella notte oscura: Capodanno a casa del dottore

Il triste pranzo dell’1 gennaio del 1962 per il medico Gerardo Infante. I ricordi di una vita all’età di novant’anni

Gerardo Infante si era laureato a Napoli nel 1897. Gli esami e i voti li aveva dimenticati. Il suo orgoglio era un altro: per sei anni consecutivi, tutte le sere, aveva mangiato zuppa di fagioli. Era stato l’unico modo per far quadrare il bilancio. Zuppa di fagioli col pane spezzato dentro, naturalmente. L’osteria si trovava dalle parti di San Gregorio Armeno. Il vecchio medico sorrideva e con un gesto insolito in lui, invitava ad osservare la magrezza del suo corpo. No, quel povero cibo non c’entrava per niente. Era un uomo alto, secco come un chiodo, dalle mani lunghe e sottili come quelle di chi abbia dimestichezza con le corde dei violini. Quando palpava il fegato o gli altri organi addominali, le sue dita penetravano come sonde. L’inverno cambiava le sue abitudini. Ad esempio, non poteva più avvenire in cortile il rito dell’estrazione dei denti. Il dottor Infante usciva dall’ambulatorio e faceva mettere una sedia sotto il pergolato dell’uva. Assistenti erano la nuora o il giovane nipote. Prima si procedeva all’anestesia con una generosa sorsata di grappa tenuta in bocca per qualche minuto. “Se vuoi, manda pure giù”, diceva il medico al paziente.

Poi ecco la tenaglia e l’inevitabile grido che invadeva il cortile, si perdeva verso il sentiero che conduceva nei campi. La nuora o il nipote si precipitavano con un bicchiere d’acqua. Non si era mai capito il perché di quella scena all’aperto. Questione di luce, visto che l’ambulatorio era piuttosto in penombra? Voglia di evitare il rimbombo del grido tra le pareti? L’unica cosa certa era che l’inverno impediva tutto questo. Nel cortile avanzava la cauta foschia di novembre. Il pergolato si mostrava nudo e nodoso come le ossa di un martire. In casa si accendevano le stufe e i camini. In quei giorni il dottor Infante pensava ad altro. Un amico gli regalava puntualmente due capponi, uno per natale e uno per capodanno. Prigionieri della stia, bianchissimi di penne, mandavano uno strano roco cadenzato chioccolio. La nuora, cui non difettava l’immaginazione, sosteneva che borbottavano come filosofi. Il medico non faceva commenti. Indossava il mantello e usciva per andare a controllare la crescita dei due animali. Sotto le piume bianche la pelle doveva diventare gialla come lo zafferano: solo allora le carni sarebbero state morbide e il vapore del bollito profumato. «Uno a Natale e uno a Capodanno», ordinava Infante.

La frase da tempo era sempre la stessa, ma a lui piaceva ripeterla come se ciò garantisse più continuità alla tradizione. Nel dicembre 1961 il vecchio medico si avviava ai novant’anni. Per il paese dove era nato ed aveva esercitato era sempre “il dottore”, l’unico “vero dottore”, anche se per gli ammalati aveva creduto soltanto nella forza risanatrice del digiuno e cercava di tenersi lontano dall’uso degli antibiotici. L’inverno non prometteva bene. Il 13 dicembre, santa Lucia, nevicò in maniera insolita. Ormai le lunghe dita del medico servivano soltanto a picchiettare sul cristallo del barometro. Lui faceva così per vedere in quale direzione vibrava l’ago. S’era beccato una brutta tosse, cavernosa. Cercava di curarla restando curvo per diversi minuti su un catino di acqua caldissima in cui aveva versato alcune gocce di trementina. Meglio che non andasse a sorvegliare i due soliti capponi nel freddo del cortile. Venne la notte della vigilia. Passarono a raccogliere l’obolo i ragazzi che cantavano la litania della Stella d’Oriente. Dalla strada le loro voci si sentivano anche nelle stanze più lontane della casa. Adesso la neve era scesa un po’ alta. In cucina era già pronta la pentola piena d’acqua per bollire le carni. Il dottor Infante ascoltò la radio, un vecchio modello anni Trenta, poi salì a dormire. La casa in quelle ore diventava gelida.

Nei letti ci si scaldava con una padella colma di cenere e di brace: le lenzuola emanavano un odore di pane abbrustolito. C’era la luce elettrica in tutti i corridoi e in tutte le camere, ma il vecchio medico continuava ad usare la candela quando andava a letto. Per spirito di imitazione, anche il nipote compiva lo stesso rito: quella sera rientrò molto tardi, dopo la mezzanotte. Si diresse verso le scale e subito vide che un altro lume di candela veniva incontro al suo. L’ombra che esso proiettava sui muri non ammetteva dubbi: era il vecchio che stava lentamente scendendo, vestito come se fosse giorno, con il cappello, il gilè, la cravatta e gli stivaletti. «Nonno, dove vai a quest’ora?» «Mi hanno chiamato. È un caso urgente». «Chi ti ha chiamato?» «Hanno suonato al campanello, hanno anche tirato dei sassi contro la finestra». «Sei sicuro?» «Sì, sono sicuro. Mi prendi per un imbecille?» Il vecchio cercava il mantello, annaspava con una mano fra l’attaccapanni e una poltrona. Ripeté : «Mi hanno cercato», e il tono della voce era stranamente, dolorosamente infantile. Allora il nipote capì. C’erano state mille e mille altre notti in cui qualcuno del paese o della campagna (la condotta era molto vasta) aveva suonato, bussato, tirato sassi alle finestre.

E in quelle mille e mille notti il medico si era sempre alzato, aveva ascoltato, era andato col suo stetoscopio in una tasca della giacca. Un cuore faceva i capricci, una febbre era salita, una pancia era impazzita… Non era poi tanto assurdo che la chiamata si ripetesse nel buio di un sogno, che nel silenzio della casa sembrasse di udire l’appello dei tempi lontani. Fu difficile convincere il vecchio. Soltanto quando il nipote gli aprì la porta e gli mostrò la strada si arrese. «Mi sono sbagliato», disse, e cominciò ad allentare il nodo della cravatta con un gesto che al nipote apparve stanchissimo e desolato. Il pranzo di Capodanno fu triste. Il cappone troneggiò senza successo in mezzo alla tavola. «Un po’ di polpa del petto e basta», chiese il vecchio. Non pronunciò altre parole. I suoi occhi fissavano la vetrata che dava sul cortile, coperta da arabeschi e fiori di ghiaccio, ed erano occhi smarriti, come di uno che non comprende più i suoni e le cose del mondo. Morì due mesi dopo, in febbraio. E anche quel giorno il cielo era di un grigio infinito e cadde un po’ di neve.