Quelle fabbriche di tessuti degli imprenditori svizzeri

La prima risale al 1829: all’inizio fu il boom, tutto cambiò con l’Unità d’Italia

di ALFONSO CONTE

Risal. e al 1829 l'inizio dei lavori per la realizzazione della prima fabbrica di tessuti al Ponte della Fratta, com’era chiamata all’epoca l’area vicina al fiume Irno compresa tra i comuni di Salerno, Pellezzano e Baronissi. Ancora lì, pochi anni dopo, sorse un'altra filanda, di dimensioni maggiori. Insieme ad altre impiantate in quel periodo nella Valle del Sarno, si formò così un complesso industriale specializzato nel settore tessile in grado di dare lavoro a migliaia di operai, da alcuni definito non senza enfasi la “Manchester del Sud”, una sorta di isola nel Mezzogiorno rurale del tempo. Ad intraprendere tali attività erano stati abili cittadini svizzeri di lingua tedesca e religione protestante, originari del Cantone di San Gallo, nei pressi di Zurigo, dai nomi quasi impronunciabili quali Vonwiller, Zueblin, Schlaepfer, Wenner, Freitag, Meyer. Secondo il recente revisionismo neoborbonico, insieme alla linea ferroviaria Napoli-Portici, al setificio di San Leucio, alla ferriera di Mongiana, alla prima nave a vapore, anche le aziende tessili salernitane testimoniano come il divario tra Nord e Sud fu posteriore all'Unità, quindi determinato dall'annessione del regno napoletano e dalla colonizzazione piemontese.

In realtà, la vicenda è più complessa e probabilmente riandare ai motivi che spinsero gli svizzeri nel Salernitano può contribuire a chiarirla. Decisive, fin dagli inizi, furono le condizioni assicurate dai governi borbonici, i quali protessero la loro produzione imponendo forti dazi ai tessuti esteri ed abolendo di fatto i concorrenti, soprattutto quelli inglesi. Inoltre, l'elevata offerta di manodopera a basso costo, priva di qualsiasi tutela sindacale, costituì un’attrattiva almeno pari alla disponibilità dei corsi d'acqua, alla prossimità al mercato napoletano, alla conoscenza diffusa tra la popolazione di saperi artigianali.

Tali condizioni garantirono a lungo una crescita della produzione e dei livelli di occupazione, sostenuta dalla capacità degli imprenditori elvetici di utilizzare macchinari all'avanguardia ed impiegare manodopera qualificata ai livelli dirigenziali, sia gli sia gli altri fatti arrivare dall'estero. Con l'Unità cambiò tutto, poiché da un giorno all'altro il mercato fu liberalizzato ed abolite tutte le tutele. Il mutamento fu improvviso e, quindi, traumatico, benché altre scelte pure sarebbero state difficili da adottare, risultando insostenibile per le deboli finanze pubbliche il costo derivante dal protezionismo borbonico, e senza prospettive di sviluppo. Alla pari degli altri imprenditori meridionali, anche gli svizzeri andarono incontro ad una fase di notevole sofferenza, durante la quale si mise in luce soprattutto Alberto Wenner, per la capacità di concentrare la proprietà acquisendo le aziende in difficoltà e, soprattutto, per il coraggio di rispondere alla crisi aumentando gli investimenti nella modernizzazione degli impianti. A differenza dei suoi connazionali, Wenner riuscì inoltre ad inserirsi nella borghesia salernitana, come testimonia il suo incarico di vicepresidente della Camera di Commercio dal 1863 al 1867, superando pregiudizi ed ostilità che a lungo avevano caratterizzato i rapporti. La diversa fede religiosa, soprattutto, ma anche una più generale visione della vita, avevano fin dagli inizi indotto la comunità svizzera a vivere separata dal resto della società, quasi reclusa negli esclusivi villini svizzeri fabbricati alle pendici delle colline di Pellezzano. Wenner dimostrò di voler rompere l'isolamento, finanziando una scuola elementare per i figli degli operai e contribuendo alla crescita civile del territorio. Tuttavia, come a volerne frenare lo slancio, nel 1865 una delle bande di briganti attive all'epoca, capitanata dal famigerato Gaetano Manzo di Acerno, mise a segno un colpo clamoroso, sequestrando il figlio e rilasciandolo dopo quattro mesi in cambio di un sostanzioso riscatto.

Nonostante tutto, Wenner e gli altri svizzeri furono in grado di continuare la produzione, seppure non ai livelli del periodo borbonico, fino alla Prima guerra mondiale, quando le commesse statali per le forniture all'esercito addirittura consentirono una significativa ripresa, favorita anche dalla definitiva concentrazione delle loro aziende in un'unica società, le Manifatture Cotoniere Meridionali. Attratta da quegli avvenimenti, una cordata di finanzieri italiani, sostenuta dalla Banca di Sconto e dal governo, sfruttò la propaganda antitedesca artificiosamente sostenuta in quei tempi di guerra per costringere, nel 1818, gli svizzeri a cedere la proprietà.

L'ulteriore atto brigantesco, peggiore del primo, pose fine alla lunga permanenza degli imprenditori elvetici nel Salernitano, i quali, comprensibilmente sdegnati, vendettero stabilimenti, villini e quant'altro e ritornarono oltralpe. Finita la guerra, finirono anche le commesse statali, sicché quello che era apparso prima un ottimo affare si rivelò poi fallimentare.

Negli anni successivi, l'Iri e quindi l'Eni, con costi straordinari per la collettività, rilevarono la gestione, con l'obiettivo principale di salvaguardare i considerevoli livelli occupazionali. Ma, ad impedire ogni possibilità di successo, fu la grandezza originaria degli stabilimenti, la dimensione voluta dai borbonici, sovradimensionata nel nuovo regime, quello della libera concorrenza. Una palla al piede divenuta insopportabile, non a caso, quando a gestire le aziende non vi erano più gli svizzeri.

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