Quella disfida tra nemici

Tredici francesi contro altrettanti italiani per regolare con le armi un’offesa subita

I cavalli avevano annusato subito la tensione dell’imminente battaglia; sbuffavano, scalpitavano e scartavano pericolosamente di lato. Con le gualdrappe e le imbottiture facevano davvero impressione, per non parlare dei cavalieri, uomini rivestiti d’acciaio dalla testa ai piedi. Nessuno si era ancora abbassata la celata sugli occhi, si squadravano a vicenda e ognuno puntava il proprio avversario.
Ed ora, sotto quel timido sole erano tutti li: Mariano sentiva al suo fianco Fanfulla da Lodi che non smetteva di ghignare e sbuffava più del cavallo; aveva detto che ne voleva ammazzare almeno tre.
Degli altri compagni, c’era chi si rizzava sulle staffe, chi allentava un po’ la manopola per sentire meglio la forza nel pugno. Il capitano Fieramosca era al centro, immobile come una statua, la lancia puntata al cielo e gli occhi sul proprio avversario: su quello sbruffone di La Motte. Mariano Marcio Abignente, al seguito del generalissimo spagnolo don Consalvo di Cordoba, non era più tanto giovane, come alcuni compagni, ma era ancora capace di farsi ribollire il sangue per la rabbia, di giostrare al pari di loro. Il maestro di campo rivolse un cenno d’intesa verso i giudici, poi si udirono tre squilli di tromba. Le urla rabbiose dei cavalieri squarciarono il silenzio d’attesa e i cavalli da guerra partirono al galoppo. Un rombo di tuono si scatenò sulla spianata, un fragore che squarciava le viscere. Lo spazio era breve, l’offesa era grave e le lance pronte a colpire: un clangore metallico raccapricciante, polvere, urla, bestemmie e dolore. Spagnoli e francesi si erano già battuti diverse volte. Ma come si era arrivati a quella situazione? Dopo la caduta degli Aragonesi, a Granada nel 1500, un accordo segreto tra spagnoli e francesi sanciva la spartizione del Meridione d’Italia; ai primi sarebbero toccate la Calabria e la Puglia, mentre ai secondi Gaeta, Napoli e gli Abruzzi. Quei patti però, che avevano mandato in pezzi l’unità politica ed economica del Regno di Napoli, ben presto si sarebbero rivelati assai fragili, essendo a vantaggio degli spagnoli. I francesi recriminavano il possedimento della Capitanata, dalla quale dipendeva la ricca dogana delle pecore, oltre a uno sbocco nell’Adriatico e così la guerra riprese.
Dopo alcune battaglie, gli spagnoli, tra le cui fila militavano numerosi capitani di ventura italiani, si erano asserragliati a Barletta, in attesa di ricevere rinforzi. I francesi da fuori, che li avevano stretti d’assedio, facevano di tutto per provocarli ad accettare battaglia, essendo superiori di forza. Ben presto la guerra stagnò per il sopraggiungere dell’inverno. Per ammazzare la noia, i cavalieri cominciarono a sfidarsi con rapidi colpi di mano e scaramucce varie. Quando non vi fu più nulla da razziare dai villaggi circostanti, francesi e spagnoli, per sfuggire agli ozi dei bivacchi, pensarono a un altro tipo di divertimento. Così presero a sfidarsi in tornei. Dopo una buona mezz’ora, a terra c’erano già due francesi e pezzi d’armatura sparsi qua e là, un elmo rotolava ai bordi del campo e il pubblico assiepato sui lati, lanciava grida esultanti. Mariano da Sarno, in preda all’eccitazione non si era accorto neanche della ferita alla coscia. Aveva disarcionato il suo avversario e si stava avventando su di lui per mandarlo al Creatore. «E tre!» urlò all’improvviso Fanfulla da Lodi, dopo avere infilzato un francese.
E giù botte da orbi, colpi di mazza e furiosi affondi di spade. D’un tratto la folla proruppe in un grido: La Motte il fanfarone era a terra e su di lui Fieramosca era pronto a finirlo. Mariano si voltò e un giudice esclamò: «Sia prigioniero! Che tutti gettino le armi» ordinò agli sfidanti, decretando la fine del torneo. Gli italiani avevano avuto la meglio sui francesi, salvando l’onore e passando alla storia. Da allora, per Mariano da Sarno ebbe inizio una valorosa carriera al servizio del condottiero Prospero Colonna, distinguendosi in diverse battaglie. Morirà a cinquant’anni, nella sua città natale; una statua eretta in suo onore, campeggia oggi davanti al palazzo del municipio. La disfida di Barletta non ebbe alcun peso storico, né politico durante quel periodo travagliato, fu un fatto d’arme come tanti, tra uomini che avevano fatto della guerra il loro mestiere.
L’evento, depurato dai contorni meno nobili delle sfide fatte per ammazzare la noia, col passare del tempo si caricò di retorica nazionalistica nel periodo risorgimentale - Massimo D’Azeglio ne farà un romanzo in tono moderno - e in quello fascista, che impiegò “l’arma moderna della cinematografia” per celebrare con il film “Ettore Fieramosca”, l’eroe nazionale e lo spirito bellico italico. L’episodio, benché glorioso per i capitani italiani, fotografa invece il ruolo marginale tenuto in quel conflitto della nobiltà meridionale.
A distanza di pochi anni, dall’ultima sommossa capeggiata dal principe di Salerno, Antonello di Sanseverino, qualunque velleità apparve spenta del tutto. Il Mezzogiorno era diventato oggetto di una sfida esclusiva tra francesi e spagnoli, dove una anarchica classe baronale, dapprima riottosa e poi tenuta ai lacci con una politica di privilegi, era caduta in una oziosa stanchezza, nell’attesa passiva del conquistatore di turno.
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