Quel viaggio della speranza

Madre e figlio s’imbarcano alla volta dell’America partendo dal Sud dell’Italia: è il 1926

di TINA CACCIAGLIA

“Mettila,. su obbedisci.” “Mamma, ma ho caldo”.

La madre non volle sentire ragioni, gli strinse forte con un nodo la pesante sciarpa di lana al collo, poi gli pose a tracolla il borsone di stoffa, pesante e rigonfio e sollevato anche lei da terra un altro fagotto s’incamminarono.

Il bambino faticava a tenere il passo della madre, il borsone pesava, ma lui lo aveva promesso al nonno: non avrebbe fatto capricci e sarebbe stato d’aiuto alla mamma.

Gli altri già erano al molo, chi in piedi, chi seduto a terra o sui bagagli. Avevano tutti la faccia scura, triste. Qualcuno s’abbracciava e piangeva, salutando chi restava. Lui e la mamma non avevano nessuno da salutare, i nonni erano rimasti al paese e le loro lacrime le avevano già piante il giorno prima.

Adesso erano soli, tra gente come loro, povera e disperata. Gente che sognava un posto dove lavorare e mangiare fosse possibile.

Il bambino ricordava quando a casa era arrivata una lettera del padre. Poche righe che parlavano di una terra dove il pane era infornato ogni giorno e dove a fine giornata la paga veniva consegnata.

La madre aveva cominciato a parlare di raggiungere il marito. Un lungo viaggio, faticoso, scomodo, forse rischioso, ma che felicità all’arrivo.

Avevano cominciato a sognare, a risparmiare e ad attendere il momento della partenza.

E ora erano lì, lontani da casa e lontani dal padre, soli e spaventati.

Ogni tanto il bambino stringeva tra le mani la focaccia che aveva nella tasca, gliela aveva regalata la nonna. Rimandava sempre di mangiarla, la toccava soltanto. Era l’ultima cosa che nonna avrebbe fatto per lui.

La cuccetta era angusta, una sola in cui lui e la mamma si strinsero insieme ai loro bagagli. Si trovava sotto il ponte della nave e l’aria filtrava solo dalla porta che dava in un stretto passaggio puzzolente di sporco e nafta. I servizi igienici erano dietro una porta sul ponte. Solo due per tanta gente. Il rumore del motore copriva i pianti dei bambini, le voci degli uomini, le preghiere delle donne. Una volta al giorno una fetta di pane e una ciotola d’acqua venivano distribuiti a tutti, ma con il passare dei giorni il pane scarseggiava e l’acqua era sempre più sporca.

Non si respirava, la mamma cominciò a tossire, prima solo un poco, poi sempre più spesso. Come lei tanti tra loro cominciarono ad ammalarsi. La notte, quando le dormiva abbracciato sentiva il suo petto sollevarsi e un sibilo, una specie di fischio uscirle dalle labbra.

Solo una volta ogni tanto gli era concesso di uscire sul ponte, al bambino piaceva c’era il mare grande tutto intorno e un giorno vide i delfini saltare lungo la scia della nave.

Finchè una mattina, il vociare degli uomini, che dormivano all’esterno della nave, salì di tono arrivando fino alla cuccetta dove la mamma e il bambino ancora dormivano.

“Terra, siamo arrivati, terra” erano grida di gioia. Il bambino era felice, voleva correre sopra guardare il paese dove stavano arrivando, in cuor suo sperava di trovare il papà sul molo ad aspettarli. Gli venne impedito. “Ognuno resti al suo posto e si prepari” l’ordine che venne dato.

La madre a stento riuscì a sollevarsi, a radunare le sue cose e a mettersi in fila in attesa di sbarcare. Prima avevano sentito la nave rallentare, poi il rumore di altre imbarcazioni che si accostavano e voci di gente che parlavano una lingua strana, sconosciuta.

Questi uomini avevano divise, li fecero mettere ancora una volta in fila e li fecero scendere a terra. La mamma dovettero aiutarla, lui stretto a lei non le lasciava l’orlo della veste che stringeva con una mano.

Li portarono in un edificio. Separarono gli uomini da un lato e donne e bambini dall’altro. Li fecero entrare in un camerone e denudare. Un uomo visitò la mamma e poi il bambino. Alla fine scrisse qualcosa su di un foglio, mentre si rivestivano.

Furono accompagnati sempre in fila, sempre assetati e digiuni, in un’ufficio dove un uomo in giacca e cravatta fece delle domande alla mamma, poi la portarono via. Una donna prese il bambino per mano, lo condusse in un’altra stanza e lo fece sedere sulla sedia davanti a un uomo. Il bambino aveva paura, dai suoi occhi, lente, scendevano le lacrime.

L’uomo parlò in quella strana lingua e il bambino lo fisso. Allora si avvicinò un altro uomo in divisa e disse nella lingua del bambino: “La tua mamma è malata ai polmoni, non può restare qua, tornerà indietro”.

Il bambino non capiva. L’uomo continuò: “Gli ammalati non sono accettati nel nostro paese. La tua mamma ha detto che qui lavora tuo padre, e che Matteo Esposito è il tuo nome”. Il bambino accenno di sì con la testa.

“Che vieni da un borgo vicino Salerno e che tuo padre si chiama Gerardo Esposito”.

Di nuovo il bambino assentì.

“Ascolta se tra quindici giorni, cioè entro il 31 marzo 1926, tuo padre si presenterà a prenderti potrai restare con lui. Altrimenti anche tu tornerai indietro. Ora segui la signora ti accompagnerà nel luogo dove sarai internato finchè la faccenda non sarà risolta”.

Il bambino piangeva, voleva la sua mamma. Fuori dalla finestra una grande statua di donna con la corona e un braccio teso a reggere una torcia era l’unica cosa che vedeva di questo paese dalla lingua strana. Guardarla lo confortò, gli accese nel cuore la speranza che il papà sarebbe venuto a prenderlo, che la mamma sarebbe guarita.

Matteo lo sperò anche se non poteva sapere che sul basamento di quella statua erano incisi i versi di Emma Lazarus: “Tenetevi, antiche terre, i fasti della vostra storia… Datemi coloro che sono esausti, i poveri, le folle accalcate che bramano di respirare libere, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti: mandatemi coloro che non hanno una casa, che accorrano a me, a me che innalzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro”.

Una frase che un giorno al bambino lontano si sarebbe infranta.

©RIPRODUZIONE RISERVATA