CARTA GIALLA

Procida ha un'anima salernitana

La famiglia feudataria dell’isola di Arturo secondo Natella era di origine amalfitana

Procida (Prochytam), che oggi è sotto i riflettori dei media per la ministeriale assegnazione del titolo di “Capitale italiana della Cultura 2022”, è un’isola vulcanica, parte dei “Giardini Combusti”, i Campi Flegrei. Già Plinio il Vecchio, protomartire della scienza sperimentale, assecondando la tradizione ne descrisse la nascita geologica come filiazione diretta della vicina Ischia, durante una violenta eruzione (Naturalis historia. L. II, 203). Amedeo Maiuri, poeta dell’archeologia e profondo conoscitore di ogni angolo della Campania, partecipò nell’ottobre 1948 a un Convegno tenutosi a Procida.

L’incontro aveva per tema la conoscenza dell’isola e la sua salvaguardia dal rischio sismico e idrogeologico. Quel breve soggiorno procidano lo ricorda Maiuri, in uno scritto inserito nella seconda edizione delle sue “Passeggiate Campane” (Sansoni, Firenze, 1950 pag. 372-375), e comincia il racconto con queste parole: «Procida non ama far parlare di sé e senza preannunci, senza processi verbali e voti faticosamente stillati, s’è tenuto convegno a Procida tra ingegneri, geologi, vulcanologi, idrologi, bibliotecari, soprintendenti e archeologi di antichità sacre e profane. Ecco dunque che un gruppetto della Napoli degli uffici e dei servizi pubblici, passò una vacanza domenicale nell’isola che non ama far parlare di sé». Il breve scritto si chiude con il ricordo del pranzo conclusivo, che si svolse «tra una selva di agrumi degni dei giardini di Armida», senza mandolini e canzoni ma discorrendo di acque e del fabbisogno idrico dell’isola, «forse per temperare l’ardore del vino procidano dei vigneti di Centàne e di Solchiaro, e non si parlò, grazie a Dio, di turismo», chiosa l’autore, con la consueta amabile ironia. Com’è stato sino a qualche anno fa, sull’isola “che non amava far parlare di sé”, i procidani - a differenza di capresi e ischitani - di turismo e di mondanità non avvertivano per niente il bisogno, e la penna evocativa di Maiuri paragona l’isola del suo tempo «a quelle bellezze un po’ schive e ritrose che non hanno proprio bisogno di concorsi e di giurie per farsi giudicare belle: trovano sempre della gente di buon gusto che sa sceglierne una per sé e per volere, a quell’una, bene sul serio». L’isola è rimasta appartata nei secoli anche come luogo letterario, fin dall’antichità, e per tutto il Medioevo e oltre si può citare solo la sesta novella della quinta giornata del Decameron, nella quale Boccaccio vi ambienta, durante la Guerra del Vespro, la vicenda amorosa tra Gian da Procida e l’ischitana Restituta; il protagonista della novella sarebbe stato, secondo la narrazione di Boccaccio, figlio di Landolfo da Procida, signore dell’isola e fratello del famoso e celebrato organizzatore della rivolta antiangioina dei “Vespri Siciliani”, Giovanni da Procida. Quest’aggancio, tra XII e XIII secolo, con la famiglia dei Procida (di origine salernitana e forse amalfitana secondo lo storico Pasquale Natella), feudatari dell’isola, è un rimando mancato nelle recenti cronache celebrative dell’isola flegrea.

La storia di Salerno in età sveva e angioina è invece significativamente legata al nome di Giovanni da Procida, e alla sua lunga attività di medico, diplomatico e ministro al servizio della casa sveva, prima con Federico II e poi con Manfredi. Nato a Salerno nel 1210 Giovanni da Procida è ampiamente e in più luoghi citato come appartenente a quella famiglia che dal feudo procidano prese cognome, nell’unica monografia storica sull’isola, quella del procidano Michele Parascandolo, “Procida. Dalle origini ai tempi nostri” (Benevento, 1893): «Ai tempi del celebre Giovanni, come vedremo, i Procida possedevano non solamente la maggior parte dell'Isola e del suo castello, ma eziandio il Monte Cumano incolto e deserto, (oggi Monte di Procida) ed altre terre coltivate e incolte sul Monte Miseno» (pag.154). Furono molti i possedimenti di Giovanni da Procida tra il territorio Napoletano e flegreo e quello Salernitano. A questo proposito ci corre l’obbligo di ricordare qui una delle tante vergognose vicende di abbandono e di incuria verso il patrimonio storico e monumentale Salernitano: alcuni anni addietro fu segnalata da chi scrive agli organi di tutela la necessità di salvaguardare i già compromessi resti della dimora di campagna di Giovanni da Procida, il cosiddetto Castel Vernieri, una struttura gotica del XIII secolo sulle colline di Fuorni, in mano privata e in totale fatiscenza. Per i pochi, a quanto pare, interessati a saperne di più segnaliamo il saggio di storia micro-territoriale su Fuorni, pubblicato da Pasquale Natella sul “Bollettino storico di Principato Citra”(anno XII- nn. 1-2 - 1994,). In quello scritto, sulla scorta di documentazione archivistica, foto e disegni di rilievo eseguiti dall’architetto Alfredo Plachesi, si attestava che le terre (contadini inclusi) e il palazzo di campagna sulla collina di Fuorni, almeno fino al 1268 e alla successiva confisca angioina, furono l’unica residenza salernitana di Giovanni da Procida. Uomo pratico, legato alla terra sua «il Gran Cancelliere, il suscitatore dei Vespri Siciliani, il rifondatore del porto di Salerno aveva comprato di tutto, in primo luogo il “palatium quod dicitur Forni cum terris adiacentibus eidem palatio circumcirca”, un uliveto, un pometo, due terre “laboratorie in eodem loco prope dictum palacium”, altre tre terre “laboratorie” ivi presenti, cinque terre ad Arcella, due oltre il Fuorni nel posto chiamato il Nocelleto nuovo, un mulino a Fuorni, e i redditi dei contadini ivi agenti, un Matteo Laurenzi (de Laurencio) e l’intera famiglia Roma, composta da Giovanni, Marco, Nicola, Filippo, Genovese». (op. cit. pag. 21).

Del palazzo di Giovanni da Procida sulla collina di Fuorni nei decenni passati era possibile ancora rintracciare l’icnografia e l’alzato, come attesta il saggio di Natella, ma oggi ci sono sul posto soltanto dei miseri, inaccessibili resti. Torniamo sull’isola di Procida per un’ultima, banale, considerazione che va fatta su quello che Maiuri, e ancor prima Roberto Pane in “Architettura rurale campana” (Firenze, ed. Rinascimento del libro, 1936) hanno scritto a proposito di Procida e del carattere schivo dei procidani, quelli de “L’isola di Arturo” di Elsa Morante (1957): scorre il tempo e la gente cambia e i segni del cambiamento si vedono già alla Coricella o alla Chiaiolella, dove bisognerà chiudere un occhio, o tutti e due per non vedere balconi chiusi da brutte verande in alluminio anodizzato e varie altre opere - stando alle cronache giudiziarie degli ultimi anni - scandalosamente “condonate” e che, di abuso in abuso proseguendo, arrivano fino ai nostri giorni. Per ottenere l’assegnazione a Procida del titolo di Capitale italiana della Cultura 2022 c’è stata la ferma volontà degli amministratori pubblici locali e dei privati, e sono oggi orgogliosi di quel titolo i procidani, che prospettano fama, glorie ed alto reddito per sé e per la propria isola, grazie a quegli auspicati flussi di turismo, che in tanti si affrettano a chiamare e promettere come “turismo sostenibile”. Ma il turismo è equiparabile a una invasiva “industria pesante”, e in quel campo di modelli “sostenibili” non ce ne sono ancora.