CARTA GIALLA

Pompei la “nostra” Palmira

Il soprintendente Amedeo Maiuri svelò: «Rovine provocate delle bombe degli Alleati»

Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico di Pompei, comunicava qualche giorno fa, con un post su Instagram, che il 18 febbraio sarebbe stata riaperta, con la presenza del ministro Dario Franceschini, la Domus degli Amanti, chiusa da quarant’anni; e il ministro, puntualmente intervenuto alla riapertura, ha detto: «Pompei è una bellissima storia di riscatto e rinascita. Era sinonimo di crolli, di file di turisti in attesa davanti ai cancelli, di incapacità di spendere i fondi, adesso è l’opposto. È un modello nel mondo, come hanno riconosciuto l’Unesco e la stessa Unione Europea. I 105 milioni di euro previsti per il Grande progetto Pompei sono stati spesi tutti e bene; adesso abbiamo stanziato altri 50 milioni di euro per proseguire i lavori perché a Pompei i lavori non finiranno mai».

C’è di che essere contenti eppure da qualche parte, nel magazzino della memoria, quando si parla di Pompei archeologica, un pensiero ci torna sempre alla mente: da quando, leggendo Amedeo Maiuri, sapemmo che molto di quello che oggi il turista vede non sono le rovine dell’eruzione del 79 d.C., bensì le “rovine delle rovine”, effetto delle 165 bombe sganciate nel 1943 dall’aviazione anglo americana sull’area archeologica e sul museo. Erano bombe da 4.000 libbre (1.800 kg) chiamate anche le “grandi demolitrici”, ma da demolire c’erano solo i resti della città consacrata a Venere, portati alla luce due secoli prima, nessun obiettivo strategico o militare che potesse giustificare tanto scempio. «La prima tragica incursione è avvenuta la notte del 24 agosto… dalla luce folgorante dei bengala, una luce spietata, planetaria, da lento bolide in fiamme. Ma per quanto vicini e tremendi gli scoppi, non si pensava, non si osava pensare che si volesse colpire Pompei, così che quando dal telefono del corpo di guardia appresi le prime notizie stentai a crederle: una bomba scoppiata nel foro dinanzi all’arco di Druso e il custode gettato a terra e tramortito entro le favisse del tempio di Giove; un’altra aveva schiantato il portico della Casa di Trittolemo; tutta la zona di Porta Marina ridotta un cumulo di macerie e il Museo Pompeiano, accanto alla Porta, colpito in pieno, distrutto nell’edificio e negli oggetti. L’inconcepibile era ormai avvenuto: il cieco orrore della guerra degli uomini distruggeva ciò che il più tremendo cataclisma della terra non aveva distrutto». È questa la pagina iniziale del memoriale di Amedeo Maiuri, soprintendente dal 1923 al 1961, “Pompei e la guerra”, uscito come articolo nel gennaio del 1946 su “La Rassegna d’Italia” e ristampato in “Pompei ed Ercolano fra case e abitanti” (Padova 1950, pp. 199-211 e p. 288), uno scritto che ancora oggi si dovrebbe diffondere - se non altro per amor di verità e informazione - anche tra gli ignari visitatori, essendone stato del tutto rimosso il ricordo pubblico, fin dal dopoguerra, da parte della politica e delle istituzioni. Solo in anni recenti si sono documentati i tempi di quelle “rovine del contemporaneo”, con il volume di Laurentino Garcia y Garcia “Danni di guerra a Pompei: una dolorosa vicenda quasi dimenticata. Con numerose notizie sul Museo Pompeiano distrutto nel 1943” (Roma, L’Erma di Bretschneider, 2006).

Presentando il volume Grete Stefani, attuale direttrice dell’area archeologica, scrive: «Toccante è il telegramma inviato dal Soprintendente Amedeo Maiuri al Ministero della Pubblica Istruzione la mattina del 25 agosto e la sua disperata richiesta di un intervento dei Paesi neutrali “perché sia risparmiata violenza cieca e brutale che minaccia distruggere Pompei monumento sacro tutta l’umanità civile». Recatosi immediatamente sul posto, Maiuri fece compilare un elenco di quanto distrutto e trascrivere con la tragica annotazione “distrutto dalle bombe”, affianco ai reperti. Come riporta Laurentino Garcia y Garcia sono ben 1378 i reperti dell’Antiquarium che andarono distrutti, cancellando serie complete di oggetti e provocando lacune incolmabili nei corredi di suppellettili rinvenuti. A causa di tale perdita nessuno studio tipologico, diacronico, territoriale relativo a Pompei o analitico per singolo edificio scavato tra la fine dell’Ottocento e la Seconda Guerra Mondiale potrà più essere svolto in modo esaustivo. E tutto questo avvenne senza che vi fosse, nell’ambito di una strategia militare, un motivo plausibile. Queste ferite e queste mutilazioni sono state pertanto del tutto inutili e possiamo da esse trarre solo l’insegnamento dell’esperienza, conoscendo quanto successo e non rimuovendolo dalla nostra memoria come finora avvenuto, affinché non accada più un simile scempio che, come ricorda Marziale per un’altra catastrofe, questa sì inevitabile, «gli Dei non avrebbero voluto che fosse permesso».

L’appello di Maiuri non ebbe effetto, nonostante Radio Londra avesse assicurato che non si sarebbe ripetuto l’errore di bombardare gli scavi e che sarebbero stati evitati ulteriori danni a Pompei. La furia cieca del bombardamento riprese il 13 settembre, cancellando parte delle Terme, del Foro, la casa della Regina Margherita, gli edifici dei servizi con l’officina restauri, il Tempio di Apollo, i Granai, danneggiando il Foro, varie case e blocchi di insule vicine. La notte del 14-15 settembre, gli aerei colpirono ancora il Foro, la casa di Apollo, la Taberna e la fortificazione sannita. Il 16 piovvero ancora bombe sulle Terme centrali, sulla casa dei Gladiatori, sulla casa del Labirinto, degli Amorini e del Centauro, e il 18 ancora sul Foro, sul Teatro e la Palestra sannitica, sulla via delle Tombe e Taberne. La notte successiva furono colpiti il Cenacolo, il Criptoportico, e varie case e Taberne, il 20 l’Anfiteatro, l’Antiquarium e il Tempio di Venere: fino al 26 settembre 1943 i bombardieri non diedero tregua a quei brandelli di case e di templi; il ricordo dell’inutile strazio degli scavi di Pompei si rinnova periodicamente per maestranze e archeologi, perché sono state diverse le bombe inesplose trovate negli scavi degli ultimi decenni. La ragione poi che ha prodotto la colposa dimenticanza del secondo martirio di Pompei - come sostiene Garcia y Garcia - è dovuta forse al fatto che a causare tanti danni fossero stati «non già l’odiato nemico nazista, ma i dichiarati salvatori della patria», gli alleati angloamericani, che non dovevano in modo alcuno essere chiamati in causa per gli “inevitabili” errori commessi durante la cacciata del tedeschi.

Purtroppo lo spettro inutilmente devastatore è sempre e ancora vagante, spesso ammantato persino di ragioni ideologiche: così è stato per il bombardamento della biblioteca di Sarajevo, delle statue più alte del mondo, i Buddha di Bamiyan risalenti al terzo secolo dopo Cristo, distrutte nel 2001 dai talebani. Con buona pace dell’Unesco le tante altre distruzioni di questo terzo millennio dal fondamentalismo islamico a Kabul, Mosul, Raqqa, Ninive, Timbuktu, nei siti archeologici di Nimrod e Palmira, non fanno sperare che sia finita.