IL CENTENARIO

Pasolini, il debutto in versi: così Gatto aiutò il giovane poeta

Da Bologna a Roma: il solido e lungo rapporto

Nel 1922, in una Bologna dove si respirava “aria di valzer”, la signora Susanna Colussi, il 5 marzo, metteva al mondo il suo secondogenito e lo battezzava Pier Paolo. Il padre, ufficiale di fanteria, non avrà apparentemente, sul figlio, nessuna influenza: si limiterà a dargli il cognome. Il bambino fu educato dalla mamma, in continuo girovagare da una città all’altra per seguire la carriera del marito, uomo che apparteneva ad un’antica famiglia di Ravenna e aveva sperperato tutto il patrimonio: passionale, sensuale e violento di carattere, ed era finito in Libia senza un soldo. Così aveva iniziato la sua carriera militare. Non è necessario scomodare gli psicologi per intuire l’importanza che una madre ha nella formazione e nelle tendenze affettive del figlio. Per Pier Paolo la madre fu tutto, sempre. Nella vita del poeta-regista ci saranno forse altre donne, ma nel suo cuore non ne entrerà mai nessun’altra. E l’inaspettata e violenta presa di posizione che Pasolini avrà contro l’aborto forse trova le radici nell’affetto che lo legava alla mamma.

Le sue prime composizioni poetiche risalgono alle elementari. A tredici anni scrive un dramma in versi. A diciassette inizia a comporre le “Poesie a Casarsa” che pubblicherà nel 1942, a proprie spese. Poco dopo viene chiamato sotto le armi. Ci resta sette giorni, dall’1 all’8 settembre1943, poi fugge in Friuli, a Casarsa, dalla madre. Ricomincia a scrivere versi, sia in dialetto friulano che in italiano. La Resistenza? No, non vi partecipò, anche se poi farà di tutto per farlo credere. Era assorbito totalmente dalla poesia. Il “pauroso disertore”, mentre i suoi coetanei trovavano la morte per mano dei tedeschi e dei fascisti, discuteva con gli amici di poesia e andava alla ricerca di rapporti culturali per dare al dialetto friulano la dignità di lingua poetica. Forse anche questo è politica, forse anche antifascismo, ma ha poco a che vedere con la Resistenza.

Anche suo fratello Guido viene chiamato alle armi. Parte sì, ma per raggiungere i partigiani della Brigata Osoppo. Viene ucciso, pare, da altri partigiani, quelli comunisti di Tito. Muore per l’Italia. Nel 1949 Pasolini lascia il suo Friuli e si trasferisce a Roma con la madre, come in un romanzo. La vita, nella capitale, è grama: per due anni vive la condizione di disperato disoccupato, di quelli che talvolta finiscono suicidi. Poi trova lavoro come insegnante in una scuola privata di Ciampino per ventisettemila lire al mese. A Roma decide di farsi conoscere. Raccomandato da Giorgio Bassani comincia a partecipare alle prime sceneggiature cinematografiche. Ma non gli basta. Vuole essere conosciuto come poeta. E si rivolge ad Alfonso Gatto. La consuetudine tra i due poeti risaliva agli anni bolognesi (1941-42), quando Gatto insegnava al liceo artistico, e stimava il giovane Pasolini . Già verso la fine del ’48 Pasolini aveva inviato a Gatto i suoi versi friulani, con traduzione in italiano a fronte, di “Dov’è la mia patria”, accompagnati da una lettera non priva di affetto. Nella lettera che accompagnava quei versi, Pasolini scriveva: “Ora, come a mio unico lettore, ho pensato a te…”. Dava a Gatto la palma di “unico” lettore, e a ragione, perché era stato Gatto il primo a leggere – come li sa leggere un poeta – i suoi primi versi friulani e a scriverne sulla rivista romana “La Ruota”, fin dal 1943. Le “Poesie a Casarsa” erano state così tenute a battesimo da Alfonso Gatto, come nel 1933 fu Sandro Penna il primo a rivelare l’apparizione di “Isola” del nostro poeta. In quella stessa lettera, Pasolini chiedeva timidamente al poeta salernitano, già affermato, “qualche indicazione” per quei suoi nuovi testi: in altre parole, un aiuto a che fossero pubblicati da qualche parte, essendo egli “solo” e “dimenticato”.

Il plico con i versi di “Dov’è la mia patria” arrivò a Roma, dove Gatto allora viveva, per ragioni diverse, non meno solo del più giovane Pasolini, anche se non dimenticato. E quindi, nell’ottobre del 1954, già a Roma da qualche anno, Pasolini comunicava a Gatto, autore della casa editrice Mondadori, la sua intenzione di pubblicare presso quell’editore una sua antologia su Pascoli, in occasione del centenario della nascita del poeta romagnolo, e chiedeva un appoggio, che ottenne. Anni dopo, affermato regista, Pasolini, che amava divertirsi a far partecipare gli amici scrittori nel ruolo di personaggi dei suoi film, convinse Gatto a vestire i panni dell’apostolo Andrea, nel suo film forse più bello, “Il Vangelo secondo Matteo”(1964). Come dicevamo, a Roma Pasolini decide di “sfondare”. La sua acuta intelligenza gli suggerisce la via da seguire: per farsi conoscere ha bisogno di provocare il pubblico con uno scritto forte, dirompente, deve dare scandalo. Già dal 1953 aveva cominciato a scrivere “Ragazzi di vita”. Il romanzo esce due anni dopo, nel 1955.

È lo scandalo, l’autore è incriminato per oscenità, ma si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica. Dalla letteratura passa al cinema come aiuto sceneggiatore, sceneggiatore, attore, regista. Per vent’anni è al centro della vita culturale del paese. Il mondo è il suo palcoscenico. Ha molto da dire, ma sa che per farsi ascoltare deve scandalizzarlo. Ogni suo scritto suscita polemiche, ogni suo film diventa un “caso”, ogni suo articolo fa discutere. Ha una cultura mostruosa, una intelligenza acuta, una raffinata sensibilità. Ma nessuno sa quali siano esattamente le sue idee in politica, in religione, nella morale. Alla pubblicazione de “Le ceneri di Gramsci” (’57) fa seguire “L’usignolo della chiesa cattolica”(’58). Ai film “Accattone” e “Mamma Roma” incriminati per oscenità (’62) fa seguire “Il Vangelo secondo Matteo” (pluripremiato, esalta i valori cristiani) e “Uccellacci e uccellini”. Ad articoli che tacciano di “fascismo” il regime Dc, altri che di fascismo tacciano i giovani del ’68. Ha parole dure per chi governa l’Italia, ne ha altrettanto dure per i comunisti che sono all’opposizione “signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote”. Quando morì, assassinato, ognuno puntò il dito accusatore sul proprio avversario. Avevano buoni motivi per chiudere per sempre quella bocca troppo spietatamente veritiera comunisti e cristiani, fascisti e femministe. E nessuno riusciva a credere che a farlo tacere per sempre fosse stato un giovane borgataro, che neppure sapeva che quell’uomo avvicinato in un bar della periferia di Roma era la voce più temuta d’Italia. È da qualche tempo che, con un crescendo impressionante, la stampa si occupa di Pasolini; forse perché si avvicinava il centenario della nascita, e il ritmo degli articoli negli ultimi giorni è diventato addirittura quotidiano. Forse è il sintomo di una presenza postuma che ha spiegazioni complesse, l’incombere di un fantasma che è ancora tra noi.

Forse la società italiana, e la società letteraria in particolare, non hanno ancora esaurito l’elaborazione di un lutto che, insieme ad altri di uno dei decenni (quello degli anni ’70) più infausti della nostra storia recente, ha lasciato tracce profonde nella coscienza collettiva del paese. Nelle sue parole c’era la violenza del polemista unita alla dolcezza del poeta, che utilizza l’immagine antica, lirica, delle lucciole. La scomparsa delle lucciole era iniziata nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua. Il fenomeno era stato rapido. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. Erano solo un ricordo, abbastanza straziante, del passato. Il tenue splendore delle lucciole, agli occhi di Pasolini, metaforizza nient’altro che l’umanità, quell’umanità divorata dal consumismo dove le lucciole sono scomparse nell’accecante chiarore dei “feroci riflettori”. Anni fa comparve un volumetto, edito da Avagliano, firmato da Furio Colombo e Giancarlo Ferretti: “L’ultima intervista di Pasolini”. A un breve, intenso testo di Ferretti, segue la trascrizione del colloquio fra il poeta-scrittore-regista e Colombo svoltosi fra le 16 e le 18 di sabato 1 novembre 1975, cioè poche ore prima dell’assassinio. Alla fine dell’incontro, Colombo chiese a Pasolini di suggerire un titolo alla conversazione. “Metti questo titolo, se vuoi: Perché siamo tutti in pericolo”. Dalla sua morte l’Italia, una certa Italia, non riesce a staccarsi, e nessuno riuscirà mai a dimostrare nulla su quella atroce fine.