Nella foresta della modernità

Rino Mele: la mia scrittura estrema nel labirinto che vivo e nel silenzio che attende

di UGO PISCOPO

Caro Rino Mele, da molti anni ci lega un’amicizia fraterna. Ti conobbi personalmente grazie a Gino Compagnone. Per l’innanzi ti seguivo come critico e teorico del visuale, poi ho scoperto sempre più da dentro che sei una foresta. Studioso di teatro e di modernità, sei anche un narratore, un drammaturgo, innanzitutto un poeta, un animatore di eventi e di dibattiti, un giornalista dalle note sobrie e acuminate, un creatore di collane editoriali. Che cosa tiene insieme tutto questo generoso fervore?

Mi piace l'idea della foresta. Per me, tutto ruota intorno alla scrittura estrema che non dà scampo. Così, la foresta che hai evocato è il labirinto che vivo.

Tu hai tenuto a lungo l’insegnamento di storia del teatro presso l’Università degli Studi di Salerno e sei stato amico di Sanguineti e altri formidabili intellettuali. Vuoi dirci qualcosa di Sanguineti e di altre tue amicizie strette attraverso l’Università?

Nel “Rovescio della psicoanalisi” (1969-70) Lacan ha ripetuto che l’Università, nel continuo trasferimento di un consumato sapere – “pervertito discorso del padrone” – esaurisce malamente il suo compito. Una sorta di gioco del domino da cui i giocatori (i professori, la politica che li amministra) continuano ancora oggi a trarre un allucinato inesistente potere. È un’istituzione noiosa, a volte orrenda, se non fosse per quei rari e improbabili personaggi, spesso antiaccademici che riescono a cambiare la prospettiva della conoscenza, la fatica del pensiero, la vita di coloro che li avvicinano. A Salerno e poi a Fisciano, penso a Salinari, De Mauro, Cilento, Sanguineti, Caianiello, la cui luce punge ora dalle ombre. Di Filiberto Menna, ricordo la generosa cultura, le creative nevrosi care.

La tua ultima raccolta di poesia, “Un grano di morfina per Freud”, è arrivata nella terna dei finalisti del Premio Viareggio Poesia (2016) e tu sei stato in predicato come vincitore. Il tema centrale è costituito dall' “Unhemliche”, come dicono i tedeschi, cioè dall’inquietante. Il quale inquietante è un filo rosso che attraversa quasi tutti i tuoi lavori. Dicci qualcosa su questo aspetto.

La parola “poesia” non mi piace più, se ne fa un irrispettoso abuso, che disgusta, sembra una béchamel andata a male, impudicamente manipolata per comunicare un falso piacere già stabilito. Dovremmo sostituirne questa parola sovradeterminata con una diversa, per intendere quel silenzio concreto che alle nostre spalle attende, il significante muto che chiede risposte. Nel libro che hai citato, “Un grano di morfina per Freud”, ho voluto rappresentare come dolorosamente terminò la vita di Freud mentre l’Europa iniziava a essere straziata dalla più truce guerra della sua storia. Gli ultimi sedici anni, Freud li aveva vissuti nella difficoltà di parlare, per un cancro devastante alla bocca (“sentiva (morirà / ventitré giorni dopo) come la sua bocca / cancerosa - la protesi / che gli stringeva le fauci, l’orrore / della lingua tagliata - fosse quella dell'Europa”). Morì di notte, che l’alba era ancora lontana, il 23 settembre del 1939.

Cosa puoi aggiungere per definire la categoria dell’inquietante, di cui ti chiedevo?

L'inquietante (come dicono i francesi), o perturbante, è l’orrore che aggredisce nelle familiari stanze, la mano che ti prende e non riconosci, la morte nell'immagine dello specchio (Freud ne scrive in un saggio nel 1919). Difficile sottrarsi all’inquietudine che ne deriva. Solo l’alta poesia, la musica inudibile, l’arte che sottrae ai numeri la misura, riescono a tenere insieme, legati, lo svelarsi impudico dei fantasmi notturni e il dolore della ragione. Nel mio breve poema, Freud pur continuando il suo straordinario lavoro di fondatore della psicoanalisi vive la violenza della sua fine senza comunicarla, girando il volto verso il muro, la bocca stretta nella contaminazione con le parole.

Spesso i personaggi e le situazioni da te portati alla ribalta riguardano il fascismo nei momenti di resa di conti con la fine e con la morte. Dicci qualcosa a tale riguardo.

Nel mio “Devozioni della pazzia” (Pequod, 2008) il fascismo meridionale è la cultura di fondo, acquitrino e burrone, e in essa la vita dei contadini e della stessa minuscola borghesia s’avvelena. Di quella peste portiamo ancora lo stigma nella nostra servile prudenza, la simulata approvazione del padrone di turno, il doppio registro di una scadente coscienza. Siamo ancora i contadini di Sanza che uccidono Pisacane per impedirgli di renderli liberi.

Se non mi sbaglio, oltre alle soste alla luce del sole con Alfonso Gatto, intrattieni con lui anche frequenti dialoghi segreti. Che cosa vi dite in questi dialoghi segreti?

Gatto è un poeta docile come una spada che senta la sfida, poeta acquoreo e l’acqua è dipinta sugli scogli. Come dimenticare l'incendio di neve della sua “Storia delle vittime”? Con l'editore Plectica, nel 2010 ho pubblicato 328 versi sulla macchina di produzione della scrittura poetica di Gatto. Il titolo è “Costruzione della rima”. Sto per ripubblicarla con l'editore Volcei. Ma non è Gatto il poeta con cui parlo, se parlo, nelle notti senza sonno. Amo la “Vita nuova”, le altre rime di Dante, e quel cantare di Cavalcanti contro il respiro: aspre e crudeli le tante sorgive del Duecento, si gettavano frecce di parole per mortalmente colpirsi mentre fingevano amore. Prima che uno di loro si dirupasse tra i morti scrivendo la "”Commedia”. Nella stretta trappola del tempo i contemporanei sono più vicini ma è difficile parlarsi (l’eco e l’anamorfosi sviano, allontanano), voglio ricordarne due, Ingeborg Bachmann e Giorgio Caproni, metto il loro silenzio ai lati di quest’intervista.

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