Nell’antico Palazzo la videoarte e Kantor vanno a braccetto

Al via da domani la rassegna “Passaggio a sud est” Cinque lavori site specific e un focus sul teatro visivo

di Barbara Cangiano

SALERNO

Palazzo Fruscione. Cinque artisti. L’icona del teatro visivo Tadeusz Kantor. E un video racconto che, come in un Grand tour digitale, celebra attraverso l’arte e le nuove drammaturgie, un’idea di “passaggio” che ha il sapore filosofico della cartolina postale di Jacques Derrida. Come la filosofia che raggiunge la destinazione, e che si esaurisce in quest’ultima, cessa di essere filosofia vera, un atto di creazione artistica, ingabbiato nel museo, rischia di distruggersi. “Passaggio a sud est”, il progetto culturale firmato da Antonio Petti e Carlo Rosselli (Teatri Sospesi) nasce proprio da questa tensione a mescolare linguaggi per ridisegnare l’identità dei luoghi.

E così Palazzo Fruscione, che conserva nei suoi “segni” le tracce di un’epoca normanna e poi angioina, si trasformerà in una modernissima “residenza d’artista” che strizza l’occhio alle FabLab con cui il digitale veste il suo lato più colto e raffinato. Tra le antiche mura del centro storico, di cui si ha traccia a partire dal XIII secolo, da domani al 27 marzo, cinque artisti (Renata Frana, Marco Romano, Pola Polanski, Paolo Puddu e Andreas Zampella) s’interrogheranno sul tema del passaggio. Quello dei luoghi che cambiano pelle. Dell’arte che modifica il suo alfabeto. Del teatro che si guarda alle spalle per rinnovarsi. Di una città che, nella sperimentazione, tenta di assorbire l’energia ancora in circolo. Per giorni, i cinque protagonisti dell’iniziativa, hanno respirato Salerno, realizzando dei lavori site specific. Rosselli li ha filmati, trasformandosi nella loro ombra, per consegnare al pubblico non (solo) l’oggetto artistico, ma il racconto di quell’intervento pensato per la città, dal di dentro delle sue viscere.

Il “passaggio” percepito tra vicoli e mare da Renata Frana, è stato quello della diffrazione della luce, mentre Marco Romano, da sempre affascinato dal mito, ha concentrato la sua attenzione sulla percezione del tempo ed il libero arbitrio. Andreas Zampella ha deciso di puntare - scegliendo la strada tradizionale della pittura ad olio - sul passaggio dall’individuo al gruppo, dalla forma umana a quella animale, mentre Paolo Puddu, sedotto dal dualismo della cultura occidentale, si è messo ad interrogarsi sul rapporto tra micro e macro, sfociato in una matrioska fatta di bombole tagliate. Il lavoro più singolare è quello di Pola Polanski, artista apolide, sostenitrice, alla Marina Abramovich, dell’importanza dell’interazione tra artista e spettatore. Per una settimana ha camminato su e giù per Salerno, intervistando chiunque le si presentasse davanti, per scoprire le ritualità del quotidiano degli abitanti di questa città. Poi le ha incise ad una ad una su barchette rosse che fluttuano in un nuvola d’aria, l’elemento che meglio di altri sembra tradurre la dimensione del “passaggio”.

Per raccontare questo attraversamento, che ha il sapore deleuziano del collage, Teatri Sospesi, in collaborazione con la cattedra delle Discipline Audiovisive dell’Università di Salerno, ha allestito un fitto cartellone di laboratori, spettacoli e performance di teatro-danza che si snoderanno nei nove giorni della rassegna. «Nel quartiere dove Teatri Sospesi ha sede, questo nostro progetto artistico – dice Serena Bergamasco, direttore organizzativo di “Passaggi a Sud Est” - ha inteso ridefinire il concetto di periferia, di luogo lontano da un qualsivoglia centro: abbiamo cercato punti di riferimento nella relazione che siamo riusciti a costruire con il territorio, fra gli artisti, il pubblico, espandendoci man mano e allargando le possibilità di azioni artistiche multiformi dentro e fuori Salerno». Tra queste, il videoteatro e la danza contemporanea, affidati a pièce originali come “Elettroshock”; “Voci/studio sul dialogo interiore”; “Eroi”; “Les Forcenes – 8 videodrammaturgie sul non esserci”; “Cinque giorni di pace”. Il fulcro di un viaggio nel corpo e nella scena, che più della parola ridisegnano i confini della rappresentazione, sarà un focus (il 26 marzo, a cura di Alfonso Amendola) su Tadeusz Kantor e la sua “visione” costruita attraverso readymades, imballaggi ed happening. «Nel Ritorno di Ulisse non c’era il solito palcoscenico con decorazioni dove si svolge l’azione, c’era invece una stanza, distrutta, “truccata”, una vera opera d’arte, al cui interno si trovavano sia gli spettatori sia gli attori», si legge in una intervista di Marita Porebski a Kantor. Quell’opera d’arte - che in Italia è arrivata attraverso La classe morta, Wielopole Wielopole e Crepino gli artisti - è figlia dell’occhio perfezionista dell’artista visivo, che non si accontenta della superficie dell’immagine ma cerca tensioni, dialettiche di forze, per tradurre un rapporto (uomo-macchina) intimo e al tempo stesso inquietante. Vestiti laceri, colori grigi, vernici scrostate, sono i codici di una scena irreale - e dunque minacciosamente autonoma - come l’arte che sa spogliarsi del tubino nero, sporcarsi con il digitale e cambiare i connotati a un palazzo nobiliare, svuotato di ogni funzione, per trasformarlo in una factory aperta a tutti. Con curiosità, ricerca. E senza pregiudizi.

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