IL REPORTAGE

Memorie da Tresino, villaggio abbandonato

Un gioiello millenario tra Agropoli e Castellabate. I ricordi degli ultimi abitanti: «Eravamo poveri e a piedi scalzi, ma felici»
 

La storia del villaggio di Tresino, tra Agropoli e Castellabate - ora decine di casali semi-diroccati indicati con il nome di “Case San Giovanni”- ha inizio prima dell’Anno Mille, nel 957. Fu Giovanni, vescovo di Capaccio, a vendere terreni incolti a Ligori di Atrani, che fece ricostruire dalle fondamenta la chiesa dedicata a san Giovanni, forse distrutta nel secolo precedente dagli arabi. L’edificio intitolato al Battista resiste ancora alla tirannia del tempo. Dopo essere stata affidata al prete di campagna Bernardo, attorno ad essa ebbe origine gradualmente il paesello che nel 1073, per donazione del principe di Salerno, Gisulfo II, divenne possedimento della badia di Cava. In dieci anni la chiesa si fece monastero con alle sue dipendenze 15 nuclei familiari. Durò tutto 27 anni, poi la proprietà passò per metà alla curia di Capaccio e per la restante, la chiesa, alla Badia. Sono questi gli anni della terribile genia piratesca e delle torri costiere che lo Stupor Mundi, Federico II di Svevia, volle fortificare e riparare. San Marco di Agropoli, Tresino, Licosa, Palinuro, Cannicchio e San Giovanni a Piro erano gli occhi sulla costa meridionale del Principato. Oltre a quella di San Giovanni, sulla vetta della collina era presente anche un’altra chiesa, detta di Sant’Angelo, divenuta poi monastero, tra l’XI e il XIII secolo. Tra uno screzio e l’altro, il villaggio andò nuovamente alla Badia che nel 1281 cedette al notaio Tommaso Pizzicariello. Venne poi la guerra del Vespro (1282-1302) tra gli angioini di Carlo II e gli aragonesi di Pietro d’Aragona, sotto le mura di Castellabate. Furono anni difficili.

Era il 1309 e il villaggio non esisteva più. Rinacque feudo per opera dei benedettini di Cava fino al 1412, anno nel quale l’Abbazia perse i possedimenti nel Cilento trasferiti da Gregorio XII al re Ladislao di Durazzo. Dal 1436 ebbero inizio le vicende feudali con i Sanseverino, Marino Freccia (1553), Carlo Caracciolo (1554), Vincenzo Loffredo (1556), i Filomarino (1557), gli Acquaviva (1622) e i Caracciolo di Torrecuso (1646). Al 1669 il territorio risultava disabitato. Passò, infine, ai Granito, poi di Belmonte, dal 1733 al 1806. Con il titolo di Marchesi di Castellabate, i nuovi signori diedero avvio ad un’intensa messa a coltura dei campi. Fu così che Tresino tornò a popolarsi. Riebbe i suoi abitanti, testimonianza per oltre due secoli di una civiltà contadina tanto povera quanto bella e genuina, di cui restano vivi i ricordi degli ultimi superstiti figli di coloni al servizio del principe Gioacchino, padre di Angelo, nella prima metà del 1900. Li riebbe fino al 1977, quando l’ultimo di loro lasciò San Giovanni, diventato a poco a poco nell’opinione comune il “Villaggio abbandonato”, smembrato tra più proprietari cui i Belmonte hanno venduto nel secolo scorso. Oggetto di tramandate leggende, bravate fanciullesche notturne e non provati macabri riti tra le rovine dell’antico convento e spaccato di vita bucolica tra fontanili, asfodeli e armenti, è stato raccontato dagli ultimi preziosi testimoni del tempo, patrimonio immateriale inestimabile.

Circa metà della popolazione si spostò tra le frazioni di Castellabate di Lago, Alano e San Pietro, il restante in località Moio ad Agropoli. Se è vero che si torna sempre dove si è stati bene, può dirlo Pierino Giannella, nato nel 1949. È lui l’ultimo del Tresino. Qui ha abitato nella casa paterna detta dei “Sette venti”, dove sorse il convento di Sant’Angelo, e si è poi sposato mettendo su famiglia in un altro casale dove oggi ha un piccolo allevamento. L’ultima nata al villaggio nel 1977 è la sua secondogenita, Patrizia. «Eravamo in dieci a casa - racconta - e si lavorava duramente per il principe, i cui guardiani venivano periodicamente a controllare animali e raccolto. Davamo la metà dei nostri prodotti, 60 polli e 150 uova all’anno. Le proporzioni cambiavano in base alla merce. Ricordo anche l'asilo e la scuola elementare aperta negli anni ’30 per noi figli dei coloni. Era nel vecchio convento. Il maestro, Natalino Montone, saliva a piedi dal Lago. Soldi non ne abbiamo mai avuti, ma a tavola abbiamo avuto sempre l’abbondanza. Torno tutti i giorni e se qualche volta manco, lo sogno di notte». Si beveva tutti alla fonte di san Giovanni, dove ci si riuniva per i racconti della sera, si raccoglieva la legna a piedi scalzi alla sorgente dell’”Acquavona” e si produceva ogni bene: latte e derivati, vino, olio, fichi, grano e altri cereali. Era festa grande con l’arrivo a pranzo dei parenti il 24 giugno. Il parroco diceva messa, si faceva la processione e la sera si illuminava a carburo la piccola piazza per cantare, ballare e gustare i gelati del carrettino e i dolci di zia Tommasina al costo di un soldo, fortunato chi lo aveva. «Non ci sono nato, ma andavo e venivo dal villaggio - continua Alfredo Serra, classe 1982 - e c’erano circa 80 coloni con le rispettive famiglie con almeno sei figli ognuna. Non ho mai visto mandrie così prospere spostarsi in massa per la vaccinazione al bivio di San Pietro.

C’era poi la grande fiera degli animali che si svolgeva ad Agropoli. La vita era triste, eppure noi eravamo felici, poveri e a piedi». Si giocava a Tressette, a mazza ‘è pìuzo, la lippa, e allo strummolo, ovvero la trottola, autentici sport popolari, e si faceva il sentimento alla scibbarra ru canto, il masso grande dove un palo cantava mentre gli amanti si incontravano. Ci si teneva lontani dalla casa del Diavolo a picco sul mare, dimora di un bizzarro e bieco colono, e si tramandavano leggende come quella della "campana d'oro", trafugata dai saraceni, finita sul fondo del mare nella fossa di san Giovanni, da dove suona durante la notte, «in realtà, dopo la vendita dei fondi da parte di Belmonte verso la fine degli anni ‘50, un italiano pare l’abbia portata in America». Dalla stessa, nel 1943, arrivarono gli alleati e il Tresino fu una naturale terrazza di avvistamento dell’operazione Avalanche. «Vidi il mare farsi paese e il cielo saetta - rammenta Biagio Pisciottano, più longeva memoria del luogo - gli americani arrivavano e i tedeschi scappavano. Una scheggia colpì casa mia e, incuriosito, mi ustionai nel toccarla. Dopo lo sbarco, per un po’ avemmo compagnia prima con la stazione radio degli inglesi e poi degli americani. Avevo dieci anni e fumavo con loro e facevo incetta di razioni K e pane fritto». Lo scorrere delle ore si calcolava in base all’ombra proiettata a terra dai casali e i pochi spiccioli venivano dalla vendita di asparagi e legna caricata sugli asinelli fino ad Agropoli. «Mia madre mi curava con l’olio di ricino e preparava il pane con l’acqua di mare - continua - per dargli sapore, mangiare pasta confezionata era un fatto straordinario. La sera spesso accendevamo fuochi dove si ascoltavano i racconti». Da quelli devono essere nate le leggende del “ponte dei diavoli”, struttura in pietra poco oltre la chiesa scendendo verso Agropoli, e del “serpente guardiano” di un tesoro nascosto. «Storie di pura suggestione - ribadisce - però una volta, la prima e l’ultima, nei pressi della fonte di san Giovanni vidi un serpente diverso dagli altri.

Era molto più grande, con le spire nere e la testa bianca simile a quella di un bambino, ma posso garantire che non aveva corna. Fummo coloni fino alla metà del 1950, poi nel 1959 mi sposai e dissi addio al Tresino, come tutti, del resto». Di questa storia millenaria, sopravvive un meraviglioso percorso naturalistico, Trentova-Tresino, nel Parco Nazionale del Cilento, che i due Comuni di appartenenza hanno deciso di valorizzare in virtù di un sano turismo ambientale. Restano 7 fontanili e oltre 40 ruderi, 35 chilometri di sentieri con tre percorsi principali numerati - delle Conche (702), dei Ponti di Pietra (701) e dei Trezeni (700) - e dieci bretelle di raccordo e stradine di accesso alle spiagge di San Francesco, Scoglio del Sale, Cala Pastena e Cala Blu. Molto, moltissimo è stato fatto dal lavoro dei volontari fino alla creazione di una mappa, frutto della collaborazione tra Pietro Faniglione, dell’associazione “Trekking Cilento”, e Danilo Palmieri, guida escursionistica del Club Alpini Italiani.

Cljo Proietti