LA STORIA

Marina d’Albori, lido del mito: fu approdo per gli Argonauti

Secondo la leggenda Giasone partito dal Mar Nero arrivò sul litorale salernitano

Una piccola rada deserta. L’acqua sembra verde, forse per la vegetazione che vi si specchia e getta un’ombra sulla striscia di spiaggia lambita dal mare. Se si costeggia il tratto di mare tra Fuenti e lo Scoglione - siamo nel comune di Vietri sul Mare - quando le ultime ombre della notte stanno per dileguarsi per far posto alle prime luci, si rimane sorpresi ad aspettare l’alba in un’atmosfera sospesa. A quell’ora, in quel tratto, c’è un silenzio assoluto, irreale: punte argentee di mare entrano nel cielo, quasi in risposta al richiamo degli ulivi. A quell’ora, Eolo tiene prigioniero il vento. Al riparo di questo angolo di costa, poche barche dormono sulla fiducia di piccole boe. Altre, più pigre, sono coricate sulla riva e riposano sul fianco. Qui, in questo breve tratto di mare, mormora eterna l’acqua del Mito. Passano gli anni, passano i secoli ma il Mito non muore. La spiaggia che si affaccia su quel tratto di mare, quella che noi chiamiamo Marina d’Albori, è in realtà Mano d’Argo, la “Mana r’Arv” dei nostri vecchi pescatori. Mano d’Argo, l’etimologia sembra essere chiara: approdo di Argo. Questa spiaggia racconta di Giasone e dei suoi compagni, della celebre nave che prese il nome dal suo costruttore, Argo, figlio di Arestore, che dopo infinite peripezie tra il Mar Nero, l’Egeo, l’Adriatico, fiumi come il Danubio e il Po finì per ancorare proprio sui nostri lidi. Rubano il cuore questa spiaggia, questi scogli e queste rocce profumate di erbe selvatiche, talvolta battute da un forte vento o cullate da incantevoli brezze, dominate dal canto delle cicale o dal silenzio millenario.

Qui i pesci affiorano a pelo d’acqua nelle notti di luna e si intravedono guizzi di corpi fra le spume luminose. E negli anni della mia giovinezza, coppiette premurose sfidavano l’umidità dell’erba a ridosso della spiaggia. Al di là della pura distesa di mare, si distinguono i monti e i paesi del Cilento, avvolti nei vapori del primo mattino. E può capitare, se ci si abbandona alla fantasia, di ascoltare versi dei poeti e i nomi di dei ormai dimenticati che sfiorano la superficie di questo mare che un tempo, al solo udirli, si sollevava in tumulto o placava in bonaccia. Pescatori e marinai etruschi, greci, romani, e naufraghi anche, alla deriva su rottami fradici sono approdati su questa riva. In queste acque un tempo vivevano Tritoni barbuti, e le glauche spelonche dei dintorni erano dimora di qualche figlia di Calliope. Ma questi sono solo fatui pensieri mentre la verità, forse, è ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri. Stupende profondità, scogli coperti di capigliature ricciute, alghe di seta su cui è così voluttuoso strisciare per un attimo. La luce delicata dell’alba. C’è un gran silenzio, eppure questo profumo di mare e di mito ha la forza di un rombo, di un suono potente, da dare uno smarrimento senza uguali. Questa baia è anche un porto naturale, ospitava la flotta dell’etrusca Marcina. È un luogo che a me sembra fuori dal tempo, per i richiami mitologici di cui è denso. Lontano, quasi, di fronte, si scorge Punta Licosa, dimora e tomba della sirena Leucosia.

Qui il sole, prima di assumere la sua grinta di carnefice, si accontenta di essere un ridente donatore di energie, e anche un mago che incastona diamanti mobili in ogni più lieve increspatura del mare. I divini abitatori di questo luogo appaiono in trasparenza a chiunque abbia un’anima disposta a riconoscerli. Giasone e i suoi eroi si avvicinano guardinghi, spingendo la nave con lento remaggio, mentre la vedetta da prua scruta con lo guardo i dintorni che possono celare qualunque insidia. Si preparano a sbarcare, lasciano i remi per impugnare le lance e gli scudi, e scendono a terra appena la nave tocca il fondo con la chiglia. È l’ora che precede l’alba, la più silenziosa, la più favorevole. La spiaggia è deserta, dorme il mare fedele, vi passa un vento leggero. C’è una fonte! Un fiotto d’acqua scaturisce dalla roccia: è un dono di Poseidone. Una breve sosta. Lasciano il lido e qualche segno del loro approdo: Falerio dà il proprio nome al monte che sorveglia la baia, e il divino Orfeo la sua musica immortale. La prua è rivolta verso Sud-Est, verso la foce del Sele, dove costruiranno un santuario in onore di Hera Argiva. Gli abitatori del mare salutano, lasciano intravedere, tra lo squittìo acuto dei gabbiani, le loro capigliature fulminee tra scoglio e scoglio. Dalle rocce, dalle conche, si levano suoni come da una prova d’orchestra. Ora il lido è bruciato dal vento.