CARTA GIALLA

Mangiar di gusto, prima Guida 1931

Così il Touring raccontò i cibi salernitani fra sanginella, aragoste e anguille

In una nazione europea per più di due terzi ancora contadina com’era l’Italia del 1931, disporre di una guida gastronomica, ovvero di un breviario per ghiottoni erranti era davvero un segnale di grande civiltà: per questo tra i meriti da assegnare al Touring Club Italiano vi è pure quello di aver voluto accompagnare alle classiche guide - sull’esempio Baedeker - dalla copertina rossa, questa guida singolare dalla copertina tutta verde, per un Grand Tour gastronomico che tocca tutte le regioni italiane, libro fondante e secondo per importanza solo alla “Scienza in cucina” di Pellegrino Artusi (1891), libro che nel giudizio sapiente di Piero Camporesi riuscì meglio dei “Promessi sposi” a unificare la lingua e la cultura italiana, fino alla sua ultima edizione, la quattordicesima (1910), curata dall’autore.

L’altro libro decisivo per la nascita del viaggio gastronomico in Italia fu proprio la Guida Touring del 1931 che, come il primo, divenne un nostrano codice alimentare e culinario. Nella Prefazione (pagg. 3-8) l’enologo, deputato e sottosegretario all’Agricoltura, Arturo Marescalchi, ricostruisce la genesi della guida gastronomica: l’idea fu «ventilata in un’adunanza del Rotary Club di Milano nella primavera 1928, dopo una briosa improvvisazione del conte Emilio Turati e una calorosa adesione di Ugo Ojetti, che formulò il piano dell’opera... », opera che nasce dopo tre anni, a seguito di indagini approfondite e alla raccolta di dati sugli usi e i costumi delle cucine regionali, attraverso dettagliati questionari che venivano spediti ai già numerosi soci del sodalizio di Achille Bertarelli, sparsi in tutto il Paese. Ha scritto giustamente John Dickie, nel suo libro “Con gusto. Storia degli italiani a tavola”, (Laterza, Roma-Bari, 2009), che «La guida del Touring Club colmava le lacune dell’incompleta mappa culinaria tracciata dall’Artusi, allargandola fino a includere ogni angolo del paese: tanti tasselli, sempre più numerosi, del grandioso mosaico gastronomico italiano diventavano accessibili a chi aveva i mezzi per andare a scovarli. Per questa casta di fortunati, la cucina divenne un elemento integrante dell’esperienza del viaggio: paesaggi insoliti, dialetti esotici, vini rustici e inebrianti, tutto contribuiva a evocare un senso del luogo inimitabile, che si ritrovava concentrato al meglio nelle specialità locali.

Conoscere l’Italia voleva dire conoscere la sua cucina» (pag. 321). Il questionario preparatorio a cui abbiamo accennato fu inviato dai redattori della guida non solo ai soci del Touring, ma anche ad associazioni e consorzi, ai podestà e ai maestri elementari di 500 comuni italiani. Tra i criteri principali utilizzati per la messa in evidenza delle specialità regionali, sia da parte degli informatori nelle risposte al formulario sia dai curatori del volume, fu quello della commerciabilità dei prodotti e dalla vendibilità delle ricette, ponendosi la guida l’obiettivo di essere strumento «... di pratica informazione per chi percorre il nostro paese...» (pag. 9). In questo che fu il primo censimento ufficiale del cibo italiano, le realtà regionali vi erano intese non come ripartizioni amministrative ma nel significato di unità culturali di natura storica e geografica, con i loro piatti della tradizione, sia quelli nati in un contesto di povertà e di fame, sia quelli della tradizione borghese. In un clima di rinato interesse statale per sagre, fiere e folklore locale, per il regime e le sue incipienti politiche autarchiche la guida negli anni a seguire sarà anche strumento di esaltazione delle risorse agricole nazionali e “dell’italico cibo”, come fu anche per la rivista “La Cucina Italiana”, nata nel 1929 per iniziativa di Umberto Notari, e che, con l’autarchia conseguente alle “inique sanzioni”, incoraggiava con nuove ricette, alternative ed economiche, il consumo di alimenti succedanei e surrogati per la dieta del popolo.

Ma nel 1931, a parte il forte messaggio politico nazionalista, la Guida fa ancora da spinta ai consumi per il mercato nazionale e al turismo gastronomico, anche internazionale. La gastronomia delle regioni meridionali occupa quasi un terzo di quelle pagine, e le cinque provincie campane sono così introdotte: «... La gastronomia della Campania si identifica con quella di Napoli, la quale predomina nell’intera regione. Parlare quindi della cucina napoletana, delle usanze alimentari della metropoli, equivale a comprendervi quelle della zona campana, salvo quelle particolarità locali che per ciascuna provincia verranno notate...». Lo spazio dedicato alla galassia alimentare napoletana è perciò preponderante, ma la provincia salernitana - che da quella galassia molto prende ha un suo spazio di tutto rispetto, con i prodotti della terra che le sono propri, elencati e descritti: i pomodori San Marzano, quelli della Piana di Eboli- Battipaglia e la nascente industria conserviera, come pure i “friarielli”, i carciofi, i finocchi “dolci e bianchissimi” di quelle campagne e i peperoni di Nocera. La mela “annurca” vi è descritta e decantata, come pure la “limongella”, la pera “spadona”, il limone di Maiori ed il melone di Pesto “... che si coltiva esclusivamente nella piana di Capaccio... varietà tardiva che si consuma d’inverno; lo si conserva in reti di spago...», e noi ce li ricordiamo quei meloni, appesi al coperto, fuori ai balconi.

La rassegna è anche una rievocazione di miti scomparsi da tempo dalle campagne: «...In tutto il salernitano, ma specialmente a Pastena (frazione di Salerno), si coltiva l’uva da tavola detta “sanginella”...», miti scomparsi dalle acque del golfo e dei fiumi, come le aragoste di Punta Licosa o le anguille e i gamberoni del Sarno. Il seme originale del San Marzano non esiste più, distrutto da una virosi più di trent’anni fa e la varietà ufficialmente cancellata dal catalogo ufficiale nel 1991; la stessa sorte è toccata poi a decine di cultivar della Campania, che rimane comunque la regione italiana con il maggior numero di tipicità, ben 531 prodotti (dati Coldiretti 2019). Alberto Capatti, nel fascicolo allegato alla copia anastatica (2003) della prima edizione della Guida, cosi conclude il suo saggio: «... L’insegnamento della “Guida gastronomica d’Italia” del 1931, è che anche una rapa o un cavolfiore sono “specialità” e come tali devono essere salvaguardate». Il messaggio è tornato di attualità. Ma oggi che l’unificazione gastronomica è compiuta - tenendosi alla larga dalla retorica “ecologista” bisogna sul serio finirla col consumo di suolo agricolo, con i veleni riversati nel terreno e nelle acque dei mari e dei fiumi, con gli sprechi di cibo, altrimenti ben presto la Guida del Touring 1931 diverrà - del tutto - un vecchio album di ricordi.