Lo sbarco di Barbarossa

Il giovane Matteo guarda atterrito il mare fino all’arrivo di una tempesta liberatoria

di ROCCO PAPA

La v. oce, le voci, i sussurri, corrono veloci per i vicoli e le strade, molto più veloci di qualunque editto o messo reale. La notizia passa di bocca in bocca arricchendosi di nuovi particolari, esagerazioni e fantasie. È la fine di giugno dell’anno di Grazia 1544 a Salerno, il sole ride sui tetti della città. Matteo ha quindici anni e abita in una stamberga all’orto magno. È uscito presto per raggiungere il convento di San Benedetto, dove padre Attilio gli consegnerà una lettera da portare a un suo parente.

Lungo la strada incontra un gruppo di persone dirette a Porta Rotese. Spingono un carro pesante carico di masserizie. Dietro di loro ci sono altri gruppi, soprattutto donne, anziani e bambini, trasportano fagotti di stoffa e trainano carretti pieni. Matteo non capisce, prende a correre a perdifiato verso il convento. Anche i monaci sono intenti a fare i bagagli. Si fa largo tra le tonache scure e sale fino alla cella di padre Attilio e lo trova intento in preghiera. Si annuncia con un colpo di tosse, il monaco s’interrompe a metà di un Pater, si gira e lo guarda. «E tu che ci fai qua?» gli chiede stupito. «La lettera per vostro cugino» replica il ragazzo. Padre Attilio si alza a fatica dall’inginocchiatoio e si avvicina.

«Ma che cosa sta succedendo?» chiede Matteo. «Kahir Ad Din» risponde il monaco. Matteo fa una faccia strana strappandogli un sorriso. «Barbarossa» specifica padre Attilio. «Il pirata?» esclama impaurito Matteo. «Sì, il pirata, come lo chiamano dalle nostre parti». «Perché, non è un pirata?» chiede il ragazzo. «Kahir Ad Din è l’ammiraglio della flotta ottomana, adesso alleato del re di Francia. E tu non devi restare in città. La sua flotta è entrata nel golfo, tra poco sbarcheranno e sarà una carneficina. Noi ci ritiriamo nella cattedrale, invochiamo San Matteo perchè ci aiuti. Di più non possiamo fare». «E lo farà? Il Santo ci aiuterà?». Il monaco sorride, gli da una pacca sulla spalla e lo accompagna alla porta. «Sarebbe meglio un’armata. Se sopravviviamo, penseremo alla lettera» dice accomiatandolo. Matteo si ritrova per strada, da solo, e pensa a sua madre. Ci sono due flussi di gente che si scontra. Vecchi, donne e bambini vanno verso le porte della città, gli uomini corrono ad armarsi per difendere quel che si può. Impugnano forconi, mazze e raramente una spada o un’ascia. Sulle loro facce si legge più paura che determinazione, più rassegnazione che coraggio. L’agitazione aumenta, c’è chi corre, inciampa, cade, si rialza e cade di nuovo. Matteo comincia a correre verso la collina, da dove si vede tutto il golfo. Rivolge lo sguardo verso il mare e resta a bocca aperta. Davanti a lui c’è un formicaio di navi con le vele ammainate, golette e vascelli con gli stendardi colorati di rosso, verde e oro. Ci sono scialuppe cariche di mori che a forza di braccia remano verso riva. Il sole fa luccicare le armi e gli elmi delle armature leggere. Il ragazzo pensa che nulla potranno i forconi degli uomini contro di loro. Pensa ancora a sua mamma, deve andare da lei, devono scappare prima che sia troppo tardi. Muove un passo, ma un boato fragoroso lo blocca. Bombardando le mura, pensa con angoscia. Ancora un rumore fortissimo, sopra la sua testa.

È un tuono, non può sbagliarsi. Alza gli occhi al cielo, il blu è così intenso che è costretto a chiuderli. Le prime gocce d’acqua gli arrivano addosso con violenza, grosse come noci. Matteo non capisce, guarda verso il mare, fino a poco prima era piatto come una tavola, adesso ci sono onde che agitano le scialuppe dirette verso terra. Una folata di vento gli fa volare i capelli lunghi davanti agli occhi, subito dopo una più forte per poco non lo fa cadere per terra. La pioggia comincia a cadare con intensità maggiore, guarda il cielo e il blu è diventato nero. Le navi nel golfo sono agitate da grosse onde, cozzano le chiglie, il rumore del legno e delle cime che stridono e delle urla di paura dei marinai sale fino a lassù. Le scialuppe invertono la rotta e tornano verso le galee, alcune si capovolgono sopraffatte dai flutti. Le navi del Barbarossa manovrano per allontanarsi, le vele gonfie sul punto di strapparsi, mentre imperversa il temporale. Passa un’ora, Matteo è rimasto aggrappato a un albero per resistere alla furia della tempesta. Il vento si placa all’improvviso e il sole si affaccia di nuovo sul golfo. Il mare è una tavola e non c’è traccia di navi saracene. Matteo corre giù per il sentiero fino alla cattedrale. Dall’interno si alza il canto di centinaia di salernitani che ringraziano Dio e San Matteo inneggiando il Te Deum.

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