CAMERA OSCURA

Liguori, occhi e cuore sul sisma

Il fotoreporter salernitano fu tra i primi a raggiungere i centri terremotati del 1980

di ALESSIO DE DOMINICIS

L’anatomopatologo, il medico legale, nell’atto di sezionare un cadavere, di effettuare un’autopsia, devono avere mano ferma e l’occhio asciutto, in una parola la loro professione esige che restino freddi. Essere freddi nell’azione materiale non comporta però, necessariamente, l’indifferenza verso la morte, verso il dolore e la disgrazia che si ha davanti ma, anzi, l’utile ricerca della verità attraverso l’azione cruenta e impietosa del bisturi rende umanissimo servizio ai vivi, ai sopravvissuti. Così avviene anche per l’occhio del fotoreporter nel documentare per immagini una tragedia umana, quando non sia, però, mera esposizione del sangue o del dolore. Ma quest’ultima latente e sadica esibizione - che si va diffondendo come spettacolo - è materia per sociologi e psicoanalisti.

Noi vogliamo soltanto parlare di reportage fotografici e di scatti che scansionano gli orrori di un evento tragico, come quelli di una guerra. Poi, siccome c’è un filo rosso, un cordone ombelicale che lega la camera oscura (quando c’era) alla tipografia, parleremo di un libro di fotografie. Parleremo di un libro che racconta per immagini un avvenimento che abbiamo vissuto di persona, e del fotografo che quelle foto ha scattato, un fotografo salernitano che abbiamo conosciuto e a cui abbiamo voluto bene. Il libro è “Fotografare il terremoto” (Salerno, Edizioni 10/17, 1981). Il fotografo è Giovanni Liguori (1942-2014). Il volume, corredato da testi di Rino Mele e Giuseppe Turroni, ha 71 fotografie in bianco e nero, scattate tra Santomenna, Laviano, Castelnuovo di Conza, Calabritto, Calitri, Lioni, Potenza, Balvano, Eboli, Salerno, San Gregorio Magno, Palomonte, Campagna, Vietri di Potenza, Valva, Oliveto Citra, nei giorni (in qualche caso nelle ore) che seguirono a quella domenica 23 novembre 1980. Il terremoto delle prime ore e dei primi giorni, più che dalla televisione, fu raccontato attraverso le pagine dei quotidiani nazionali e locali. Su molta parte degli scandali e vergogne della “Irpinia gate”, dei colpevoli ritardi, delle commissioni degli insabbiamenti e dello sperpero, ci sarebbe ancora da scrivere, ma le immagini dei fotoreporter parlavano direttamente, con l’eloquenza che è propria delle immagini, e raccontavano la portata del disastro.

Su quel territorio martoriato, “vasto quanto il Belgio” per usare il raffronto fatto da Zamberletti quando si riuscì a mappare tutti i centri colpiti, Giovanni Liguori, come gli altri fotoreporter de “Il Mattino“, si spostava ogni giorno con la sua Citroën “due cavalli”, per consegnare al giornale la rappresentazione concreta e quotidiana del dramma. Fu il compagno di viaggio degli inviati che all’epoca furono mobilitati da Roberto Ciuni, direttore de “il Mattino” (alcuni tra loro Onorato Volzone, Gino Liguori, Gianni Festa, Pietro Gargano, Nicola Fruscione e Gaetano Giordano). Il materiale, pubblicato da “Il Mattino“ dal 24 novembre all’8 dicembre 1980, fu raccolto nel dossier “Quei giorni delle macerie, della paura e della rabbia”, uscito come supplemento al giornale del 25 gennaio 1981. Dopo la prefazione del direttore Roberto Ciuni vi furono riprodotte le prime pagine della testata napoletana, gli articoli degli inviati e le foto di Liguori, di Luciano D’Alessandro, Fabio Donato, Antonio Troncone, Mario Siano e molti altri.

Una selezione degli scatti di Giovanni Liguori, anche quelli inediti, fu poi raccolta nel libro “Fotografare il terremoto”, che si presentò, con la mostra “Le immagini sulla parete”, presso la Galleria “La Barcaccia” di Enzo Castaldi, nel settembre 1981. Donne e uomini, vecchi e bambini, i vivi, sopravvissuti a quella “malanotte”, sono i protagonisti muti del libro di Giovanni, i loro volti sono la vera “storia” del terremoto dell’Ottanta e ancora di più lo sono oggi, nel rivederle dopo quarant’anni, quelle facce. Tutte le immagini del libro sono senza didascalia perché - come avverte una nota finale - «è oramai acquisito il criterio dell’autonomia del linguaggio iconico ». Giuseppe Turroni scrisse nella sua prefazione: «L’occhio del vero fotografo, di fronte alle calamità naturali e alle tragedie scatenate dall’odio degli uomini, conosce quella forma di pietà non retorica, non sentimentale, soprattutto non declamatoria, che spesso è l’altra faccia dell’egoismo e del cinismo. L’occhio di questo fotografo è oggettivo e la sua pietà dinnanzi alla catastrofe non ha aggettivi, non ha parole vuote di senso, non ha neppure lacrime. Se avesse lacrime, non vedrebbe.

Se avesse parole, queste non sempre gli permetterebbero di capire la profonda realtà del fatto. Se avesse aggettivi, questi toglierebbero autenticità alla forma e alla forza della sua sintesi. Non ci vuole far piangere con queste fotografie, anche perché egli non ha pianto mentre scattava. Queste immagini hanno un senso circolare, è come se tutte le persone toccate dall’enorme tragedia volessero stare insieme e insieme guardare dentro l’obiettivo di Liguori, senza retorica, ma con occhio fermo, pacato e razionale. Un occhio simile a quello di Liguori, che coglie il punto giusto della realtà, senza mistificarla, senza mitizzarla, senza ingigantirla, (c’è anche chi fa questo). Questo è il moderno sentimento della buona fotografia di informazione giornalistica: la notizia nuda e cruda, priva di fronzoli, che parli da sola, che non dia idee, insomma, ma fatti». Rino Mele, nel testo di presentazione della mostra fotografica che abbiamo ricordato, curata da Antonio Castaldi, ricorda - citando un brano tratto da “Avanguardia e Rivoluzione” di Walter Benjamin (1934) «una certa fotografia alla moda fa della miseria un oggetto di consumo. Ciò che dobbiamo pretendere dal fotografo è la capacità di dare alla sua fotografia quel commento scritto che lo sottrae all’usura della moda e le conferisce un valore d’uso rivoluzionario».

È anco- ra Mele che conferisce a quelle foto, con un rigo di scrittura, la cifra che esse conserveranno nel tempo: «Il testo è chiuso, come ogni testo che ha il tempo della storia, del già avvenuto, per sempre». Giovanni Liguori, oltre alla pluridecennale attività di fotoreportage per “Il Mattino”, pubblicò suoi scatti per “L’Espresso”, “L’Europeo”, “Epoca”, “Bild Zeitung”, “The Sun”, collaborando con Ansa, France Press e altre agenzie di stampa, ma a noi è piaciuto ricordarlo qui per le immagini del terremoto. Ancora in questi giorni - incredibilmente - si parla di contributi ex L.219 e s.m.i. per i danni del sisma del 1980; ancora se ne vedono segni sparsi nel tessuto edilizio e se ne trova traccia nei bilanci ministeriali e comunali, ma se si vuole cogliere il peso di quello che accadde quella sera, e che forse ha cambiato per sempre uomini e cose dei nostri paesi, basta sfogliare il libro di Giovanni Liguori.