«Le crisi alimentano i nazionalismi»

Lo storico Sabbatucci: ma non aspettiamoci il ritorno di nazismo o fascismo

Il prof. Giovanni Sabbatucci terrà oggi alle ore 12,30 nell’Aula Magna del Liceo Tasso una lectio magistralis su “Il rigurgito dei nazionalismi sopiti in Europa oggi”. A seguire dibattito curato dai vicepresidi del liceo Tasso prof. Marco Falivena e Mariagrazia Crapis

“Il . nazionalismo è alla nazione ciò che il bigottismo è alla religione”. Questo aforisma di Francesco Saverio Nitti sui nazionalismi fa riflettere su come sia importante oggi, alla luce di eventi storici e di elezioni di leader saliti al potere con idee fortemente conservatrici, distinguere bene termini come nazionalismo, patriottismo e populismo. Giovanni Sabbatucci, tra i più insigni storici del nostro tempo, ha studiato a fondo i corsi ed i ricorsi della storia; per lui la nazione «non è solo una realtà spirituale, ma anche naturale».

Prof. Sabbatucci, cosa c’è di vero nella frase di Leo Longanesi “Il Nazionalismo è l’unica consolazione dei popoli poveri?”

Qualcosa di vero c’è: identificandosi in una comunità nazionale, i ceti disagiati possono riporre le loro speranze non tanto in un mutamento dei rapporti sociali, quanto in un riscatto nazionale che corregga la distribuzione mondiale delle risorse a vantaggio del loro paese. E’ la teoria di Mussolini (ma prima di Enrico Corradini, uno dei fondatori del movimento nazionalista in Italia) delle “nazioni proletarie”: in altri termini, la lotta di classe trasferita a livello internazionale. In genere non funziona (vedi il caso dell’Italia fascista), ma ha un’indubbia forza di attrazione.

L’amore per la nazione, secondo alcuni studiosi, si è spostato da un concetto “territoriale” a un concetto più elevato più spirituale. Non vi è più l’orgoglio di “essere” italiani, ma vi è l’orgoglio di “sentirsi” tali, di sapere che siamo individui ma nel contempo siamo parte di una realtà più ampia, che non annulla la nostra unicità ma la eleva. E’ d’accordo con questa visione?

Mi piacerebbe che fosse così, ma non credo che sia così. L’idea di trasferire l’identità nazionale dal piano della appartenenza territoriale (o etnica o linguistica) a quello spirituale è antica. Si può riassumere nella famosa formula di Ernest Renan (1882) della nazione come “plebiscito di tutti i giorni”. E a una concezione del genere faceva riferimento Federico Chabod nelle sue lezioni su L’idea di nazione, contrapponendo un nazionalismo basato sui dati di natura (cattivo) a quello di matrice rousseauiana e mazziniana basato appunto sulla libera scelta e sul sentimento (buono). In realtà i due nazionalismi sono spesso intrecciati. E non è facile fondare l’appartenenza nazionale su un atto di volontà sempre rinnovabile, ma sempre revocabile: nessuno Stato nazionale reggerebbe a un plebiscito quotidiano. Meglio ammettere che la nazione è una realtà non solo spirituale, ma anche naturale (legame con le proprie origini e con la propria terra), e nel contempo non è l’unico riferimento.

Il giornalista Dario Di Vico mise in guardia in un articolo dalla “Trappola delle analogie”. Dal suo punto di vista di storico, l’ascesa di leader alla guida di importanti nazioni che hanno vinto elezioni con idee fondamentalmente nazionaliste, lo si può considerare una analogia con la diffusione delle stesse idee nel passato (ad esempio in Europa nei primi anni '30) o è pura retorica o peggio, populismo?

Purtroppo il paragone non è affatto infondato. Le crisi economiche sono il naturale brodo di cultura dei nazionalismi e, quel che è peggio, dei movimenti autoritari. Lo sono perché distruggono la fiducia nelle promesse della democrazia (che in realtà non ha mai preteso di assicurare l’abbondanza) e nell’economia di mercato che ad essa è legata. Ma Di Vico ha ragione quando invita ad andar piano con le analogie. Se è vero che la crisi attuale somiglia per molti aspetti a quella degli anni ’30, non per questo dobbiamo aspettarci il ritorno del nazismo o del fascismo. Non dobbiamo ripetere lo sbaglio di quelli che, all’apparire del fascismo, lo assimilavano al bonapartismo o alle dittature sudamericane. Quello che sta già accadendo è la diffusione di “democrazie autoritarie” che puntano sulla rinascita dei nazionalismi e dei protezionismi e, se non si sgonfieranno in tempi brevi, finiranno col renderci tutti un po’ meno liberi e un po’ più poveri. Non è una bella prospettiva, ma potrebbe essere corretta o rovesciata nel caso di un mutamento della congiuntura economica.

Trova una connessione oggi tra nazionalismo, populismo ed antieuropeismo? In cosa si ritrovano i sostenitori di queste teorie?

La connessione c’è ed è forte. Il tratto comune di tutti i movimenti populisti, compresi quelli di sinistra, è proprio l’ostilità nei confronti dell’Unione e dello stesso progetto europeo. Non tutti gli antieuropeisti sono nazionalisti, populisti o “sovranisti”, ma tutti i populisti sono antieuropeisti, compreso Trump che pure non è europeo. Di fronte alle difficoltà materiali e alla precarietà dell’economia, scatta la tendenza a stringere i legami con ciò che appare più prossimo e più controllabile (i governi nazionali e locali) e a dare la colpa di tutto a poteri sentiti come lontani estranei e impersonali, ma al tempo stesso autorizzati a decidere su materie importanti. Questa percezione non era così acuta quando l’appartenenza all’Unione appariva materialmente vantaggiosa. L’Europa diventa un bersaglio facile nel momento in cui si presenta come custode di un’ortodossia finanziaria che implica sacrifici.

Stefano Pignataro

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