La strana vita dell’automa

Un mutismo imbarazzante, pensieri nella testa in un groviglio, la morte solitaria

di PINA ESPOSITO

Aveva . un groviglio di pensieri nella testa, tutti i santi giorni, questo povero cristo di Rosario; gli confluivano direttamente sulla fronte, scendendo dalle sopracciglia, scivolando poi sui solchi delle labbra che quasi mai si aprivano, serrate come rimanevano, in un silenzio corrugato e senza sorrisi.

Un mutismo imbarazzante quello di questo uomo strano e solitario che, dallo scafandro della sua anomalia, nemmeno per un’ora era mai andato via. Restava fermo fisso a rovistare nel ronzio delle parole vuote che gli giungevano nelle orecchie e non faceva altro che ascoltarle. Si mettevano in fila ad una ad una, come piccole perle, in attesa di un filo che le radunasse. In questo caso, è ovvio, il filo era costituito dal suo ragionamento, se così lo possiamo chiamare, che in questo modo manifestava quello che era il suo mondo interiore.

Oh, se provava piacere! La sua era una gioia sottile, intima, inconfessata che nessuno aveva avuto mai la possibilità di cogliere, sebbene negli occhi cespugliosi si accendesse,in quei momenti, un lampo improvviso a spezzare la stagnazione acquosa delle pupille di quest’uomo.

Da piccolo vedeva gli altri e urlava; quando smise di urlare iniziò a tacere. Oddio, non è che fosse muto, ma inibito sì al punto che, fattosi grande, fu chiaro a tutti che proprio normale non era, anche se con una certa tranquillità, aveva portato avanti tutti gli studi. I docenti erano convinti che fosse solo molto timido e che un poco alla volta, negli anni, si sarebbe risolto il problema,ma così non fu e Rosario rimase sempre chiuso in sé, come una lumaca nel suo guscio. Sul viso, come sappiamo, non comparivano espressioni particolari; dunque, non rideva,non si arrabbiava, nè si rattristava.

O, perlomeno, questo era ciò che appariva agli altri. Non si riusciva, perciò, a capire cosa pensasse, nè cosa provasse e nemmeno lo sguardo lasciava trasparire qualcosa che, in qualche modo, si potesse interpretare: una vera tortura per la mamma, un fastidio mai nascosto per il padre, un mistero per i parenti e nessun problema per gli amici, semplicemente, perchè non ne aveva nemmeno uno.

Ora che aveva una certa età,conservava ancora il viso paffuto di bambino, in cui si perdevano gli occhi infossati; il mento sfuggente era ombreggiato da un naso grosso e grasso; insomma, Rosario era conciato male.

Quando camminava correva come se avesse avuto sempre un treno da prendere al volo ;poi era solito guardare per terra, per cui non si lasciava incuriosire da niente e procedeva circondato dal vuoto che scavava nei frastuoni della vita reale.

Facile così che Rosario si scontrasse con gli altri per strada, dando qualche pedata o qualche spallata a certuni che, per lui erano e restavano fantasmi, manichini vacui: ectoplasmi per la sua psiche malata.

Rosario continuava a bere e a mangiare e a non parlare. Non erano serviti a nulla i ceri accesi dalla mamma che sperava e pregava per un cambiamento che non arrivava mai.

Quando raggiunse la trentina e trovò lavoro in un’azienda dove doveva monitorare colonie di cellule, i genitori si convinsero che sarebbe diventato normale; lì, effettivamente, si sentiva tranquillo: quegli esserini che vedeva al microscopio gli davano sicurezza e anche se somigliavano all’umanità brulicante che lui rifuggiva, questi, a differenza di quella, li poteva controllare e ciò gli dava quel senso di potenza che andava ad aumentare giorno dopo giorno, alimentando il fervore febbrile che ormai provava per il suo lavoro.

Gli esserini che galleggiavano ignari nelle ampolle e che Rosario non si stancava mai di ammirare erano la proiezione del suo mondo interiore che,in un certo qual modo, vivisezionava.

Li controllava, li scrutava perdendosi nei giochi degli instancabili giri, smaniando in fantasie fumose che sempre di più lo separavano dalla vita e dagli altri; controllando loro controllava se stesso e l’intangibile linea oscura del male di cui era preda.

Non gli poteva importare del pesco che fioriva, nè delle campane che suonavano a festa; allo stesso modo, non gli poteva importare un fico secco del cielo e, perciò, non lo guardava mai.

Anche durante i suoi rari viaggi non si lasciò mai emozionare da ciò che di nuovo gli si parava avanti: niente, come se le immagini trattenute sulle retini fossero trasparenti. Tremule tracce appena incise e subito cacciate via

Solo i rumori dei suoi pensieri sentiva: ronfavano, danzavano, si increspavano come code di aquiloni, ruttavano, si contorcevano, facevano di tutto, senza smetterla mai.

Rosario che non rideva, ovviamente, non sapeva neanche amare; non ci riuscì nemmeno quando una biondina insipida gli buttò le braccia al collo sperando in un bacio che non ricevette mai.

Rosario non era un uomo,era un automa. Rosario aveva un cuore nudo, una mente che non andava.

Rosario aveva gli occhi ciechi e sembrava monco di mani: era un disperato che non si disperava mai.

Pareva sceso da un altro pianeta e, quando in vecchiaia si decise a parlare, finalmente disse le poche parole che come sua infermiera raccolsi in un letto sgualcito di un ospedale: “per il suo programma non c’è più nulla da fare”.

Morì così, come era vissuto,liberandosi dai rumori assurdi dei suoi pensieri.

Tranne me, non lo pianse nessuno. Tornò polvere fra le stelle: nel testamento aveva scritto che voleva essere cremato.

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