La stazione di posta del Principato Citra ancora esistente

È l’impianto di Tavernapenta a S. Antonio di Pontecagnano Storia particolare di un luogo citato da Giacomo Casanova

di ALESSIO DE DOMINICIS

Lungo la strada consolare che da Napoli conduceva corrieri e viaggiatori verso la Calabria, le stazioni di posta, destinate al ristoro, al pernottamento e, soprattutto, al cambio dei cavalli, erano ubicate sul percorso secondo un criterio di equidistanza e nascevano come impresa di privati, come del resto tutto il servizio postale europeo, nato tra la fine del ’400 e i primi decenni del ’500 per iniziativa della famiglia bergamasca dei Tasso e di altri imprenditori, prevalentemente italiani. Questa nuova organizzazione del “corso pubblico” fu particolarmente apprezzata dai governi che stipulavano precise convenzioni con i privati gestori del complicato e pericoloso esercizio del “corriere”.

Nel Mezzogiorno vicereale la prima normativa del servizio di posta risale al 1559, con la prammatica del Duca di Alcalà Pedro Afán de Ribera “de officio praefecti cursorum”, che affidava al “mastro di posta” il compito di fare osservare precise regole d’ingaggio. Tra le “poste” di Principato Citra, corrispondente all’incirca all’attuale provincia di Salerno, a metà ’700 se ne contavano otto: Nocera, Salerno, Tavernapenta, Eboli, lo Scorzo a fasi alterne con La Duchessa, Auletta, La Sala, Casalnuovo (dal 1863 Casalbuono), ma di queste secolari costruzioni una sola rimane in piedi, integra nell’impianto planimetrico: quella di Tavernapenta, a S. Antonio di Pontecagnano. L’occasione di parlarne ce la fornisce il cartografo Giovanni Antonio Magini (1555-1617) che nel suo foglio “Principato Citra Olim Picentia”, impresso a Bologna nel 1620, ma redatto nel 1602, posiziona – con buona approssimazione – la stazione di posta “Taverna-penta” a due miglia dal ponte doganale sul Picentino.

Questa del Magini, derivata forse dall’atlante napoletano di Mario Cartaro, sarà a sua volta prototipo per le omonime carte del Blaeu, Hondius e altri cartografi tra ’600 e ’700: in tutte figura il toponimo “Taverna Penta”, o talvolta “Taverna Pinta”. Oltre all’attestazione cartografica cinquecentesca, il sito è noto agli studi storici da una pergamena del monastero femminile di S. Giorgio di Salerno, proprietario del fondo, che nel 1582 vende la taverna a un tale Giacomo Durante per la bella somma di 1.800 ducati; è verosimile quindi che la locanda e stazione di posta già all’epoca fruttasse un’ottima rendita. Sull’origine del toponimo e sulle vicende salienti del fondo ha scritto di recente Pasquale Natella nella postfazione al libro “Viaggio a Madrid. Da Montecorvino alla corte di Filippo II” (Napoli, Franco di Mauro editore, 2015).

Nel testo, a commento dell’inedito diario del viaggio spagnolo di Gaspare Morese (1519-1584), antenato dell’attuale proprietario di Tavernapenta Filippo Morese, Natella lega l’origine del suffisso “penta” alla pendenza naturale del suolo e dell’area di sedime del fabbricato, allontanando ogni possibile riferimento alla famiglia salernitana dei Penta ed altre fantasiose etimologie; nello stesso saggio Natella ricostruisce i trasferimenti proprietari principali e le vicende legali del fondo tra XVII e XVIII secolo (pag. 96-97). Oltre che nella cartografia e nelle mappe postali, in tutta la produzione letteraria passata come guide e itinerari di viaggio tra sette -ottocento, la prima stazione di posta indicata, a sud di quella principale di Salerno, è Tavernapenta, che talvolta è registrata come “Vicenza”, antico toponimo di S. Antonio di Pontecagnano. Nel 1770, nella sua terza tappa campana, il viaggiatore impenitente Giacomo Casanova, ospite dei Carrara nel loro palazzo di Salerno e in quello di S. Antonio (a poche decine di metri in linea d’aria dalla stazione di posta), cita la località secondo l’uso del tempo: “.. (da Salerno) in un’ora e mezza arrivammo alla sua villa che era tra Vicenza e Battipaglia. La casa padronale era vasta e bella e la posizione felicissima..” (G. Casanova, “Storia della mia vita”. Ed. a cura di Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1965, vol. VI, pag. 422 ). Ai Carrara appartenne anche Tavernapenta, passata poi ai Moscati e, dal 1859 ad oggi, ai Morese di S. Tecla. Nella seconda metà dell’800, con l’estensione della rete ferroviaria meridionale, le mutate condizioni di viaggio e col nuovo servizio postale dello Stato (1862) è la fine delle vecchie stazioni di posta, e i Morese integrano l’edificio di S. Antonio nel loro sistema produttivo agricolo-zootecnico del vicino fondo seicentesco di Auteta. L’edificio diventò allora quella vasta masseria che è stata fino al secondo dopoguerra inoltrato. Ubicato a valle della S.S.18, dov’era in origine l’accesso dal muro di cinta, (ancora visibile) il fabbricato, nella sua attuale tipologia a corte centrale quadrata (20 metri per lato, e circa 1400 metri quadrati di superficie coperta) ricalca in pianta, al piano terra e al primo, l’impianto della stazione di posta settecentesca, mentre il secondo piano e zone superiori della facciata sono parte di successivi interventi.

Il fascino dell’edificio, inserito nel circuito dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, è accresciuto dal recente restauro, accorto e filologicamente corretto, intrapreso da Filippo Morese, titolare dell’azienda agricola e cimeliarca della famiglia; in un suo libro, tirato in pochi esemplari fuori commercio (“I Morese”, Napoli, 2015), nel paragrafo su Tavernapenta (pag. 169-174), traccia il passaggio dell’edificio da centro produttivo e abitativo per il personale agricolo a moderno caseificio, dal 1995, quando diventa il terminale del ciclo produttivo dell’allevamento bufalino nella vicina azienda Auteta-Prati. Del fabbricato, è oggi visitabile la bella corte interna, con l’antico pozzo e i circostanti ambienti di servizio dell’antica stazione di posta , poi masseria Morese.

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