La “Scuola medica” e il rito del salasso alle calende di aprile

In uno scritto le regole utilizzate nel Quattrocento Il cognome Lanzetta dalle lancette per le incisioni

di ALESSIO DE DOMINICIS

Salasso, sanguisuga, sanguetta, mignatta sono oggi soltanto delle metafore, che si sentono usare (perché rendono bene l’idea ) nei confronti dei prelievi fiscali, delle banche, di Equitalia, degli usurai eccetera, ma fino a tutta la prima metà del novecento capitava, con una certa frequenza, di vedere tra le stigliature del farmacista il vaso di vetro con le sanguisughe (Hirudo medicinalis ), vive e vere, poiché tra le pratiche sanitarie il salasso era ancora ampiamente contemplato e praticato da medici e barbieri. Anzi per questi ultimi costituiva una vera specializzazione professionale. Il breve prologo serve a introdurre uno scritto pubblicato dall’Archivio storico per la provincia di Salerno – seconda serie, A.III (1935), numero 1, pagine da 20 a 24 – intitolato: “Le norme del salasso nel quattrocento secondo la Scuola salernitana”. L’autore del breve ma originale saggio fu il dottor Giovanni Vitale, che commentava un codice, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, sulla salassoterapia, circolante a Salerno e nei maggiori centri universitari della seconda metà del Quattrocento: il “De phlebotomia liber” (noto anche come “De missione sanguinis in pleuritide” o “Consilium super phlebotomia et pleuresi”), un poemetto di 582 distici elegiaci, che Salvatore De Renzi aveva già trascritto per intero nella sua “Collectio Salernitana” (III, Napoli, 1853, pagine da 255 a 270), perché riconducibile direttamente alle dottrine dei maestri salernitani, in particolare al “Flos sanitatis”, che l’autore del manoscritto, Giovanni dell’Aquila da Lanciano (1430?-1506 ), ben conosceva e da cui attinse molti dei versi del suo lavoro. De Renzi, da par suo, restituisce agli studiosi notizie dettagliate: “...su questo medico del Regno di Napoli che godeva molta fama nel secolo XV e che probabilmente era stato allievo della scuola di Salerno. Da ultimo in un tempo in cui si guardano con favore le pubblicazioni de’ trattati inediti antichi, non dovrà essere letto senza una qualche compiacenza un poemetto che si trova citato nelle opere bibliografiche e storiche, e che intanto giaceva ancora inedito nella Biblioteca di Parigi..”; ulteriori precisazioni sul medico abruzzese fornisce De Renzi nel suo “Storia della medicina in Italia”, II, Napoli 1845, pagine 390.

Dagli studi recenti su Giovanni dell’Aquila da Lanciano sappiamo che iniziò la sua carriera universitaria a Padova nel 1463 e qui la concluse nel 1506, anno della sua morte, passando attraverso vari incarichi al servizio della Serenissima, tra cui quello di medico di bordo sulla flotta veneziana, in seguito membro del Collegio dei filosofi e dei medici, di cui divenne priore negli anni 1488 e 1498, e fu proprio su incarico di quel Collegio che nel 1491 compone il trattato “De phlebotomia liber”. Il dottor Vitale ne compara le prescrizioni con quelle già in uso nella scuola medica salernitana, e così si apprende la quantità di indicazioni cliniche che presiedevano alla pratica di cavar sangue: raramente ai giovani e ai vecchi (meno di dieci e più di settant’anni), mai con tempo nu. voloso, né nei forti caldi e nei forti freddi. L’operazione andava praticata nelle stagioni intermedie (preferibilmente in primavera, alle calende di aprile), in ambienti che non risentissero di estremi di umidità, di temperatura e di luce, mai nelle ore della canicola e con maggiore prudenza nelle contrade settentrionali che in quelle meridionali.

Seguendo il testo quattrocentesco si precisa poi la tecnica delle incisioni delle vene, operate dai salassatori mediante la lancetta (ci viene in mente che il cognome Lanzetta, tanto diffuso nel nostro mezzogiorno, è riferibile al mestiere di salassatore, cerusico o barbitonsore), ovvero – con minor frequenza – con l’applicazione di sanguisughe. Stiamo parlando, se ancora non fosse chiaro, di un’ancestrale pratica che concentra su quel liquido tessuto chiamato sangue la massima attenzione, e chiunque, ieri come oggi, ne intuisce l’importanza capitale per la vita del corpo animale, perfino la valenza di simbolo della stessa esistenza umana nei testi chiave della nostra cultura , dall’Eucarestia di Cristo donatore al Dracula sottrattore.

Il codice quattrocentesco, nota Vitale nel suo saggio, enumera trentatré vene (una chiara simbologia cristologica) tra quelle salassabili, e prescrive che il salassatore vigili nelle sei ore successive perché il paziente non sia preso dal sonno. Altre norme ancora, per significare l’attenzione da dedicare alla cruenta operazione, fissava la scuola salernitana e lo stesso estensore del poemetto: nei cinque giorni successivi il salassato prenda poco cibo, si riposi e si astenga sempre dal coito, pericolosissimo in tali circostanze; seguono nel testo edito da De Renzi (“Collectio...” pagine da 265-268 ) e nel saggio di Vitale (pagine 23-24 ) un dettagliatissimo elenco di alimenti vietati al salassato (in primis carni suine e vaccine, di capra, di cervo, di gru e di pavone) e la dieta consigliata (uova ,pane di frumento o di orzo ben lievitato e ben cotto, carne di gallina, vino bianco o rosso). Tutte queste precauzioni e precetti dettati al paziente erano, commenta il Vitale “...quanto mai razionali, e corrispondenti in gran parte a quanto oggi si ammette ancora”.

La lettura del breve saggio, scritto in anni in cui il salasso era ancora praticato ma oggi limitato a pochissimi stati morbosi, ci riporta ancora al poemetto di Giovanni dell’Aquila e a quell’Europa cristiana ed ebraica, in cui l’ideologia del sangue non conosceva diaframmi tra il sacro e il profano. Il Talmud prescriveva che la pratica dei salassi avvenisse in uno specifico giorno della settimana o in determinati giorni del mese, e raccomandazioni simili si potevano trovare negli scritti cristiani che consigliavano di praticarlo secondo il calendario dei santi, nei giorni dedicati a quelli taumaturghi o favorevoli come San Cosma e Damiano. Che poi in quella stessa Europa cristiana, tanto accorta e devota nella pratica di cavare il sangue, se ne spargesse tanto, fino a poco tempo addietro, è altra storia.

Ci piace concludere queste divagazioni con una nota tratta da Piero Camporesi (“Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue” , Milano 1993 pagina 100): “È sul confine del sangue, sul filo rosso tra puro e impuro, che si rappresenta l’inesausto dramma fra sacro e profano, fra storia del divino e storia di quell’umano che dell’umanità vuole disfarsi”.

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