CARTA GIALLA

La peste che flagellò Salerno

Nel 1656 l’epidemia si diffuse da Napoli a tutta la Campania, furono centinaia i morti

I virus, i batteri, il contagio, sono l’ultima frontiera della paura collettiva, l’ultima in ordine di tempo. A differenza di quelle peculiari di quest’epoca, si tratta in questo caso di una paura che ritorna, ciclicamente, appena si avverte che il morbo serpeggia nel giardino di casa, e adesso che le distanze sono annullate, il giardino di casa è tutto il pianeta Terra. A parte questo aspetto contemporaneo, che diremmo di amplificazione, i meccanismi mentali e le misure pratiche di difesa dall’epidemia sono le stesse del passato: la chiusura delle frontiere e dei porti - oggi degli aeroporti - il cordone sanitario intorno alle città, la quarantena per i casi sospetti o potenzialmente pericolosi, e infine il lazzaretto per i colpiti dal contagio; anche le critiche ai tutori della salute pubblica sono, per molti versi, le stesse di altre epoche. Manzoni, nei “Promessi Sposi”, fa una lunga ricostruzione storica della peste milanese del 1630, con 160mila morti nel solo Ducato, e dedica al contagio due interi capitoli del romanzo. Quelle pagine sono anche critica e aperta polemica verso i costumi, gli errori e i pregiudizi del secolo XVII, verso la debolezza delle istituzioni nel valutare e prevenire, non soltanto il contagio ma anche gli sconvolgimenti sociali ed economici che si determinavano con l’avanzare dell’epidemia: anche se i tempi della caccia all’untore e della carestia che succede alla peste son cose del passato, il crollo attuale delle Borse dopo la conclamata diffusione in Cina del Coronavirus e la paventata crisi del commercio e della finanza internazionale, rievocano in qualche modo quel passato. Per maggiore conoscenza dei meccanismi psicologici che si ingenerano nelle persone e nelle società minacciate, torna utile rileggere qualche pagina del libro che meglio di altri descrive la peste napoletana del 1656: il volume di Salvatore De Renzi (1800 - 1872) - uno dei padri fondatori della storiografia medica in Italia - “Napoli nell’anno 1656” (D. De Pascale, Napoli, 1867), di cui esiste anche una ristampa anastatica del 1968, con prefazione di Antonio Altamura. Le motivazioni che indussero Manzoni a descrivere la peste di Milano furono le stesse che indussero Salvatore De Renzi verso quello studio: «Nell’anno 1656 la città di Napoli e l’intero ex-Regno furono desolati da una fierissima pestilenza, che fece inorridire i contemporanei, trasmise spaventose tradizioni, ed oggi non più trova fede in chi ha il coraggio di leggerne le relazioni sincrone questo fatto mi sembrava molto acconcio a dimostrare quanti danni derivano dal sacrificare i precetti dell’igiene al fanatismo improduttivo, e quanti pericoli sorgono da alcuni pregiudizi e dagli errori di una coscienza mal consigliata e debole. E però mi parve utile presceglierlo per presentarlo come parlante esempio di disordine nella ragione de’ popoli, allorché essi sono colpiti da grave sciagura» (pag. III). Lo scenario apocalittico di quel flagello si diffuse in breve da Napoli a tutte le provincie del Regno, fatta eccezione del Salento. Nel Principato Citra, oltre al capoluogo Salerno, i centri più colpiti dalla peste bubbonica furono Cava, Nocera, Ravello, Lettere, Amalfi, Campagna con altre terre, Sanseverino, Giffoni e Pisciotta. Uno dei tanti studiosi ed esperti frequentatori di archivi, corrispondenti del De Renzi per le sue ricerche, fu Alfonso Linguiti, il quale fornì all’autore diffuse notizie sull’epidemia di peste in diverse zone del Salernitano, pubblicate in appendice al volume. Apprendiamo così che un parroco salernitano nel registro dei morti dell’anno 1656 « vi appose una memoria di quella pestilenza, che ho fatto copiare e vi trasmetto. Da essa si raccoglie che la peste scoppiò in Salerno il giorno 14 giugno, preceduta da un terribile temporale e alluvione, che invase la Chiesa di S. Antonio, dove ora sono le carceri, mentre che vi si celebravano i divini uffici, e che nel termine di pochi mesi spense pressoché la metà de’ cittadini, facendo, specialmente nel mese di agosto, circa settanta vittime al giorno» (pag. 306). Altro corrispondente del De Renzi fu lo storico amalfitano Matteo Camera il quale scrive che le comunità della costa non furono risparmiate dal flagello della peste : «Amalfi, Atrani, Scala, Ravello, Minori, Maiori e Tramonti ne furono desolati, e quest’ultima più delle altre. In Atrani il brutto malore v’infierì crudelmente; ed ivi in mezzo alla costernazione ed alla confusione, si portarono a seppellire gli appestati morti e moribondi. In esso paese nel 21 Luglio di detto anno morì il Vescovo di Bova (Calabria) Martino Megales , che s’era recato a villeggiare, e per onoranza fu seppellito nella Chiesa Collegiata. La città di Minori ebbe a perdere 355 abitanti morti appestati, e che di tutto il clero non rimase in vita che soltanto il Vescovo locale monsignor Fra Leonardo Leria, un Canonico ed il Priore del Convento agostiniano. La terra di Tramonti, diocesi di Amalfi, composta di 13 casali e di altrettante Parrocchie con Arcipretura , fu orribilmente desolata dallo stesso morbo, e ne rimasero vittime tutti i tredici parrochi, insieme coll’arciprete D. Gaspare Luciani». In quei frangenti bisogna dire che i più esposti al contagio erano proprio i preti, costretti per il loro ufficio a recarsi nelle case degli appestati moribondi per dar loro i sacramenti. Tra le molte risposte sbagliate da parte delle istituzioni ai problemi posti dall’epidemia vi furono i processi, le condanne e gli orrendi supplizi inferti dai Tribunali di Sanità agli «ispirati dal diavolo per diffondere il morbo», gli «untori». Quella colossale fesseria giudiziaria fu sempre Manzoni a denunciarla con la “Storia della Colonna Infame”, dove si dimostra come le prove effettive di reità raccolte contro gli imputati furono sì le confessioni e le denunzie reciproche, ma furono strappate a loro con la tortura, da parte di quei giudici che Leonardo Sciascia, nell’introduzione alla “Storia della colonna infame” (ed. Sellerio 1981), definì come “I burocrati del Male”. Di questi e di altri «pregiudizi ed errori di una coscienza mal consigliata e debole» vi è ricca documentazione nel libro di De Renzi, che offre spunti di discussione ancora attuali, e non solo sull’epidemiologia, ma pure sulle derive nevrotiche indotte dalla paura della contaminazione. Quello che oggi si spera è che le evolute comunità, occidentali e orientali, siano preparate e sappiano dare solo risposte razionali, adeguate alla grave epidemia che ha colpito la Cina, anche se tornano alla mente le parole di Camus, nel romanzo- metafora sulla vita e sulla Malattia dell’Umanità: «I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati». (“La peste”, Bompiani, 1964, a pagina 38).