La notte maledetta in cui fu ucciso il ragazzo di vita

Quarant’anni fa la tragedia all’Idroscalo di Ostia I luoghi frequentati quella sera sono meta di visitatori

di ANTONIO IOVANE

Te. la trovi all’ingresso del ristorante, dietro a un tavolo, seduta su una sedia in faggio. «Questa è la sedia de Pasolini», dice Giuseppina Sardegna, la stessa sedia su cui stava il poeta quella sera, la riconosci da un fiocco annodato su una gamba. Da quel giorno Giuseppina - che gestiva il ristorante col marito Vincenzo Panzironi - accoglie i clienti così. È l’ultima persona, esclusi i suoi assassini e chi non può più raccontarlo, ad aver visto il poeta in vita. È stata lei a servire Pasolini e Pelosi, l’assassino “ufficiale”, quando arrivarono, alle 23.30.

Pasolini aveva trascorso il pomeriggio con Furio Colombo della Stampa, per la sua ultima intervista e poi a cena con Ninetto Davoli da “Pommidoro” a San Lorenzo. Quindi, con la sua Alfa GT2000, aveva raggiunto piazza dei Cinquecento dove il ragazzo di vita Pelosi, allora 17enne, aveva accettato il suo invito. «Hai fame?», gli aveva chiesto Pasolini. «Sì, aveva risposto Pelosi». Così eccoli al Biondo Tevere.

«Erano già le 11.30, stavo riordinando la cucina, è venuto mio marito, mi ha detto: Giuseppi’, mi fai uno spaghetto aglio e olio?». Gli rispondo: «A quest’ora?”. E lui: «A Pasolini che gli diciamo di no?». E mentre dice, ricompone la scena compreso il tavolo di legno massello, sposta la sua sedia e ne sottrae un’altra a una cliente - che gentilmente si presta - perché quella, invece, è la sedia di Pino Pelosi. Ecco, ora le ha disposte al quarto tavolo dal fondo, sotto due foto del poeta. «Hanno mangiato qui», mi indica, dopo aver ricreato un angolo di teatro antico circondato da sedie e tavoli moderni. E sotto la scorza del viso da anziana ecco che immagini quello di ragazza di quarant’anni fa e anche il ristorante, oggi affacciato sul trafficatissimo viale Ostiense, diventa quello del 1975. «Mio marito gli ha portato gli spaghetti e Pasolini gli ha detto: «Non è per me, è per il ragazzo, io ho già mangiato. A me portami una birra e una banana». Escono a mezzanotte e venti, Pasolini e Pelosi, prendono la via del Mare e raggiungono l’Idroscalo. Poi il poeta spegne la macchina.

C’è un cancello chiuso con una catena appesa, il visitatore del Parco letterario Pasolini - oggi gestito dalla Lipu - non deve fare altro che aprire il moschettone, levare la catena e richiuderla nel moschettone una volta fuori. È un piccolo giardino della memoria, sulla destra una fila di otto lapidi delinea un sentiero di pochi passi. Su ciascuna un verso di Pasolini tratti dal Pianto della scavatrice o Una disperata vitalità, dove si dice che la morte è “nel non poter più essere compresi”. Tre ragazzi dell’associazione GayLib sono qui in pellegrinaggio. In fondo alla scena, invece, il monumento bianco di Mario Rosati in cemento grezzo: una colonna greca monca, due colombe e la luna piena che si dividono lo spazio. Quarant’anni fa era un campo di terra, stracci, sterpaglie. Quarant’anni fa, proprio dove stiamo camminando, c’era il corpo dell’intellettuale più importante del Dopoguerra italiano, a pancia in giù, le gambe distese, la maglietta alzata fino a metà schiena, la bocca tra terra e sangue. «Prima dell’alba mi chiamò il regista Michelangelo Antonioni e mi diede la notizia - ricorda oggi Colombo -. Sono arrivato sul posto prestissimo, stavano portando via il corpo, la scena del delitto era stata alterata dalla polizia». Colombo racconta che cominciò a cercare testimonianze in tutte le baracche e le abitazioni, «trovai una persona che mi disse di aver sentito molto di più di un alterco tra due uomini».

Poi venne la fuga di Pino la rana, l’arresto, i processi, le ritrattazioni («Erano in sei - dirà Pelosi - ci stavano pure i fratelli Borsellino», due neofascisti poi morti di Aids). Verranno le ipotesi su eventuali moventi (il libro Petrolio, che Pasolini stava scrivendo, nel quale il poeta indagava sulla misteriosa morte di Enrico Mattei). Ci fu chi, come l’amico Sergio Citti, raccontò che Pasolini aveva un appuntamento all’Idroscalo per riscattare le pizze del suo ultimo film, Salò, che gli erano state rubate.

Ma le ragioni per ricercare la verità col tempo si affievoliscono, perdono valore politico per ridursi a giallo storico e oggi, più che l’omicidio, si ricorda la morte perché a crescere è piuttosto la figura del profeta con la sua antiretorica, la sua intelligenza fluida e intuitiva, il suo rifiuto del pensiero unico. Per quelli che si nutrivano di scritti corsari o di belle bandiere oggi non siamo nel 2015 ma nel 40° dopo Pasolini, si comincia a contare dal momento in cui si perdono i padri. E forse alla fine è Daniele, di GayLib, ad aver capito davvero Pasolini. Perché quando gli chiedo una definizione mi risponde: «Ha dato coscienza al valore di essere ciò che si è».

©RIPRODUZIONE RISERVATA