Il disegno di Licio Esposito che illustra la lettura di questa settimana firmata da Carmine Mari

LA LETTURA

La notte dell’Operazione Avalanche

Il tragico destino del mio amico Fred che saluto ogni anno per non dimenticare quel giorno

Dday. Stanotte non si è dormito molto in quelle cuccette: caldo asfissiante, puzza di piedi, nafta, corpi sudati, uno sull’altro. Nonostante le pillole per il mal di mare ho lo stomaco in bocca. Ho vomitato la mia colazione a base di uova in polvere in testa al caporale del 2° battaglione, mentre ci calavano nel nostro LST da sbarco, appeso alla scaletta di corda. Lui a sua volta ha ricambiato a quello di sotto. Cerco di controllare la tensione aggrappandomi il mio Thompson che porto a tracolla. Siamo addossati l’un l’altro come sardine in scatole. Il nostro mezzo da sbarco avanza verso il settore di spiaggia Uncle Red, nostra destinazione, il nostro inferno. La prima ondata è sbarcata alle 03:30, ma è rimasta inchiodata sulla sabbia sotto il fuoco dell’artiglieria nemica. Il sergente davanti mi ostruisce la visuale. Vedo solo una fitta cortina di fumo bianco. Il suono cupo delle esplosioni viaggia nell’aria trapassando le viscere. Una coppia di caccia sfreccia sopra di noi nel cielo grigio dell’alba. Più in alto, scie di bombardieri disegnano strane geometrie, intrecciandosi tra loro. Ovunque posi lo sguardo non vedo altro che navi, navi e ancora navi, mezzi da sbarco, centinaia di imbarcazioni, motolance, rimorchiatori, chiatte, dragamine e navi da battaglia di qualsiasi classe, roba da fare accapponare la pelle. Come le bordate sparate dai cannoni; una dietro l’altra si susseguono incessanti e i proiettili da 200 mm esplodono oltre le dune. Altro che festa di san Patrizio. Di colpo una colonna d’acqua si solleva a pochi metri dallo scafo; granata crucca. Il fuoco di sbarramento dei nostri si intensifica, dalle corazzate arrivano certi confetti, ma quelli rispondono senza tanti complimenti, eppure il cannoneggiamento dura da almeno tre ore. Una granata centra in pieno un LST con il portellone chiuso; salta tutto per aria come una polveriera. Poveri diavoli. Il pilota del mezzo da sbarco comincia a urlare dentro al megafono, è impossibile sentirlo tra le tutte quelle esplosioni. Il sergente si volta e ci ordina di stare pronti. Tra poco andiamo in scena e mi viene da pisciare. qualcuno vomita l’ultimo boccone di colazione e di caffè. Spero non mi si inceppi il cervello e soprattutto il mio Thompson quando ci sarà da combattere. Fred mi tocca la spalla. Lo rassicuro: stammi dietro, gli dico. Dobbiamo prendere una rete di postazioni per mitragliatrici, bunker e trincee. I crucchi hanno circondato la zona con reticolati e campi minati. Ci sono quei bastardi della 16 Panzer a presidiarlo. Ripeto a mente le istruzioni mentre il respiro diventa affannoso. Mi impongo con un sforzo di mantenere il sangue freddo; lo faccio pensando alla promessa che ho fatto a Fred. La rampa si abbassa, salto fuori col cuore che mi sfonda il petto, accolti dal sibilo delle pallottole. Una mi passa vicino all’orecchio, il suo ronzio rassomiglia a quello prodotto delle ali di un calabrone. Saltano gli altri. Fortuna il fondale è basso ma la sabbia rallenta la nostra corsa. Il sergente è il primo a cadere, non appena ha messo piede in acqua, abbattuto da una raffica di MG-42. Ta-ta-taa. Ta-ta-ta. Approfittiamo del fumo di copertura per raggiungere la duna. La spiaggia è disseminata di rottami, di carri che bruciano, cadaveri a brandelli e feriti che invocano aiuto, un mattatoio: siamo carne da macello. Ho perso di vista Fred, la confusione è totale ma non c’è modo di occuparmi di lui. Altro che ventre molle dell’Europa, come ha sostenuto il nostro Winnie; quelli resistono come diavoli, ci lanciano contro di tutto, se potessero anche le pietre, ma noi non molliamo. Fred non si vede. Le pallottole spazzano il terreno circostante e falciano tre compagni. Aggiriamo la postazione per prenderli sul fianco. Piovono bombe e proiettili mentre strisciamo tra le canne e i cespugli di ginestre. Su quella duna ero troppo impegnato a sparare e a non farmi beccare. Tenevo sotto tiro una casamatta crivellata di colpi per proteggere gli altri, e non ho badato più a Fred. È un ritornello che non riesco a dimenticare. Sono vissuto troppo a lungo con rimpianto di non essere morto laggiù, assieme a loro. I miei commilitoni non mi hanno mai abbandonato, vedo i loro volti, quei sorrisi allegri e sento ancora le battute. Ancora non so come me la sia cavata: fortuna solamente, ma non ho mai smesso di pensare a quei drammatici momenti, al sangue e alla morte. Tornavo al cimitero ogni 9 di settembre per andare a incontrare i miei commilitoni del battaglione. Facevo sempre lo stesso giro per rivedere la spiaggia del Magazzeno dove ho combattuto, e visitare il luogo dove ho ritrovato Fred, a mezzogiorno di quel giovedì, steso sul fianco, con la testa appoggiata al braccio. Prima di morire si era messo davanti le foto della moglie e dei figli, quella del padre, della madre e delle sorelle. Spero tu sia morto confortato dai tuoi cari, amico mio, spero mi avrai perdonato. Purtroppo le gambe non mi reggono più in piedi e non credo di farcela quest’anno. Sarebbe bello che ci fosse qualcuno a salutarli al posto mio, ringraziare i miei compagni e tutti quei ragazzi che non si sono risparmiati in quella maledetta guerra, magari un sindaco, una scolaresca, un po’ di gente e anche qualche fiore. Al termine della guerra ho trovato Londra addobbata di bandiere e manifesti per la vittoria. Se la sono meritata soprattutto i morti quella festa. Ricordare era il mimino che potessi fare, ringraziarli per la libertà. Sarebbe bello se lo facessero ogni anno i paesini, le città che abbiamo liberato, ogni 9 di settembre, quelle bagnate dal nostro sangue, quelle che custodiscono i nostri morti. Sarebbe giusto conservare la memoria. Sono stanco amico mio e troppo vecchio, ma ho staccato un biglietto per un altro volo. Avvisa gli altri, sto arrivando Fred.