CARTA GIALLA

La “libraria” di Giordano Bruno

Negli anni del noviziato era solito frequentare la biblioteca di S. Domenico Maggiore

Negli ultimi decenni del Cinquecento l’occhio vigile del Sant’Uffizio e la particolare cura e zelo che usava nel continuo aggiornare, annotare e osservare le censure e gli avvisi dell’Indice dei libri proibiti, erano uno spauracchio molto temuto da tipografi e librai, nello stampare, vendere o anche solo importare, testi di autori dichiarati eretici, ovvero quelle opere considerate perniciose per lettori non avvertiti. L’elenco dei volumi vietati alla vendita e al possesso comprendeva anche Dante, col suo “de Monarchia”, Boccaccio, alcuni sonetti di Petrarca e altri autori medioevali; ma la bestia nera per gli inquisitori era rappresentata dai libri di Erasmo, Valla, Machiavelli, Guicciardini, di fra Paolo Sarpi, e, primo fra tutti, dalla figura di Giordano Bruno, con tutti i suoi scritti caduti in disgrazia presso Santa Romana Chiesa e destinati al rogo dal Sant’Uffizio. In verità Bruno aveva legato il suo destino ai libri censurati o proibiti fin dagli anni del noviziato napoletano, presso il convento di San Domenico Maggiore, la cui fornitissima biblioteca rappresentava per lui l’unica possibilità di appagare il bisogno di conoscenza, la inesausta ricerca di cose teologiche, naturali, scientifiche, di sapienza antica o contemporanea; che fossero provenienti da fonti ortodosse o eretiche, poco importava nei concetti del filosofo in nuce, il quale avvertiva tutta l’importanza del libro, in quel tempio di conoscenza rappresentato dalla “Libraria” del convento.

Ai tempi di Bruno e dopo, la biblioteca napoletana di S. Domenico Maggiore fu frequentata da studiosi religiosi, ma anche secolari, dotata com’era di una collezione unica, varia e preziosa, poiché vi si conservavano anche testi di autori eretici ovvero sottoposti alle restrizioni e alle censure dell’Indice. Ancor prima di ricevere gli ordini sacri e di celebrare la sua prima messa nella chiesa del convento di S. Bartolomeo a Campagna, Bruno si ebbe, a Napoli, la sua prima censura, proprio a causa di letture e consigli dati a un altro novizio in San Domenico Maggiore. La grande quantità di volumi presenti nella biblioteca del convento e l’affluenza continua di nuovi arrivi di libri, stimolò più di un frequentatore a portarsene qualcuno a casa o in cella, così, a causa dei numerosi furti e irregolarità, il Maestro Generale dell’Ordine domenicano fece appello al Papa perché fossero scomunicati i ladri e quelli che accedevano ai libri proibiti senza espressa licenza dei superiori. E il breve papale di scomunica, puntuale arrivò: in data 16 giugno 1571 Pio V decretava la “scomunica maggiore” a coloro i quali - singoli religiosi o secolari, di qualunque dignità, stato, grado, ordine e condizione - osassero estrarre libri dalla biblioteca senza debita licenza del Papa o almeno del Padre Generale dell’Ordine. Il breve papale era anche inciso in una lapide, oggi scomparsa, che fu murata nella parete di destra del piccolo vestibolo di accesso alla Biblioteca. Il nuovo clima poliziesco che si era instaurato nella “Libraria” e nel convento di S. Domenico Maggiore indusse Bruno nel 1576 ad allontanarsi da Napoli e andare a Roma, per meglio difendersi dall’accusa di aver manifestato idee eretiche nel corso di una disputa teologica con dei confratelli. Da Napoli poi gli giunse anche la notizia che l’odiato suo nemico fra’ Bonifacio (quello a cui, nella dedica del Candelaio, prometterà vendetta in questa o in un’altra vita), perquisendo le sue robe lasciate a Napoli nella fretta della fuga, vi aveva trovato opere di San Giovanni Crisostomo e San Gerolamo con le annotazioni di Erasmo da Rotterdam, volumi proibiti presi senza autorizzazione dalla biblioteca del convento. A tale notizia Bruno capì che, ai sensi di quel “Breve” papale, era automaticamente scattata per lui la scomunica. Alcuni anni dopo un altro illustre “sfortunato”, sia per le sue letture che per le sue idee, fra Tommaso Campanella, incorrerà nei rigori di quel “Breve” di Pio V: il filosofo di Stilo, di passaggio a Napoli nel 1591, nel leggere la lapide affissa all’ingresso della libreria domenicana, si permise di commentarla con aria canzonatoria e ad alta voce, con queste parole: «Com’è questa scomunica? Si mangia?», e tanto bastò a causargli il carcere e un processo, uno dei tanti. La notizia su Campanella a S. Domenico l’apprendiamo dall’opera di Luigi Amabile, “Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi, la sua pazzia”, (Vol. I Parte I. Napoli, A. Morano Editore, 1882, alle pagine 44 e 45).

Tornando a Bruno e al suo amore per l’oggetto-libro, è bene ricordare che per guadagnarsi da vivere durante le sue peregrinazioni da fuggiasco nelle capitali europee, lavorò in una tipografia di Ginevra come correttore di bozze, assistendo alla formazione materiale dei libri, maneggiandoli dalle fasi della composizione e dell’intaglio delle immagini, fino alla cucitura dei fogli e alla rilegatura. L’esperienza vissuta dal filosofo nella tipografia ginevrina farà sì che in seguito sarà egli stesso a curare la pubblicazione di alcune sue opere, come nel caso del libro dei 160 articoli contro i matematici e i loro simboli, un libro, elogio della tolleranza, che compendiava i tre campi del sapere bruniano, la filosofia la magia naturale e l’arte della memoria, volume stampato a Praga nel 1588 e di cui disegnò personalmente l’apparato iconografico. Anche per la stampa di altre sue opere Bruno si avvalse dell’esperienza di proto e di bibliofilo, ed è il caso del “De triplici minimo et mensura ad trium speculativarum scientiarum et multarum activarum artium principia libri V”, libro stampato a Francoforte nel 1591 e curato da Bruno, dalle bozze alla stampa definitiva. Nella modesta sacca da viaggio usata da Bruno nei suoi spostamenti non mancavano mai i libri, e spesso li perdeva oppure gli venivano rubati, insieme a qualche suo scritto, ma a ogni occasione non mancava di procurarsene presso librai e stampatori, che a Parigi divennero i suoi migliori amici. I libri erano anche il suo biglietto da visita e il lasciapassare nelle corti e nelle università delle città d’Europa, le cui biblioteche non mancava mai di frequentare, come quella parigina di Saint Victor, presso la quale fu assiduo lettore: ne fa fede il registro di richieste e prestiti, il “Journal”, di quella Biblioteca. Nacque Bruno da una famiglia nolana di modeste origini, fu costretto a vestire il saio per farsi largo nel mondo, capire e tentare di farsi capire, cosa che gli riuscì meglio in Germania che altrove, tanto che i tedeschi lo consideravano più vicino a loro che non ai connazionali italiani.

Fu perseguitato per tutta la vita, da tutte le Chiese d’Europa, riformate e non, fino al carcere romano e al supplizio finale, a cinquantadue anni, il 17 febbraio 1600 in Campo de’ Fiori. Amò i libri e le “ librarie”, anche se fu proprio un libraio veneziano, Battista Ciotti, nel 1591, durante l’importante fiera internazionale del libro di Francoforte, che consegnò a Bruno l’invito di un suo cliente, Giovanni Mocenigo, l’ignobile delatore che, dopo averlo ospitato in casa sua a Venezia, perché gli insegnasse l’arte mnemonica, lo denunciò e lo consegnò nelle mani dell’Inquisizione. A furia di parlare di libri a qualcuno potrebbe apparire che la passione di Bruno fossero i libri in quanto tali, e che tanto suo leggere, commentare e filosofare lo allontanassero di fatto dalla realtà concreta del mondo. Ma egli aveva invece ben presente tutta la noia e l’inutilità prodotta dalla pedanteria libresca, tutte le malizie umane e possedeva un senso preciso dei rapporti di forza nella società del suo tempo. Ha scritto il noto brunista napoletano Michele Ciliberto, che Giordano Bruno era persino capace di dissimulare, di fingere, all’occasione, in un dibattimento o in uno scritto, ma - come lui stesso ebbe a sottolineare ne “Lo Spaccio de la Bestia Trionfante” - solamente quando si trattasse di “proteggere” con uno “scudo” la verità.