La fabbrica del liquore

Così il Masaniello diventò la bevanda d’eccellenza in Costiera

di VITO PINTO

Non v'è oggi in Costiera Amalfitana un solo ristorante che, al termine del pranzo, non offra un bicchierino di limoncello ben ghiacciato, liquore digestivo e corroborante dal fragrante aroma, a base di pregiato prodotto costiero: lo sfusato amalfitano. Il limoncello è entrato, ormai, a far parte del menu locale e viene prodotto o in proprio dai ristoranti o da alcune fabbrichette. A questo si è aggiunta tutta una serie di altri liquori "artigianali" come il Concerto e il Nocino, per non parlare del Finocchietto e del Nanassino, specialità, questa, al fico d'india esclusiva del ristorante Bacco a Furore, quello in cui Anna Magnani piazzò un piatto di "ferrazzuoli" sulla faccia di Roberto Rossellini.

Una volta, però, quando non tutti sapevano farsi in casa il rosolio o liquore di limone, a Vietri sul Mare vi era una fabbrichetta che produceva un "liquore di fantasia a base di agrumi della Costiera Amalfitana, di colore rosso rubino chiamato "Masaniello"; un nome brevettato dal suo "inventore" e produttore che aveva voluto dedicare il liquore al suo più noto concittadino, quel Tommaso Aniello detto Masaniello, pescatore di Atrani, rivoltoso capopolo e ingenuo viceré napoletano.

Quel "Gran Liquore", come si poteva leggere sull'etichetta ormai storica, era una "Specialità della Premiata Distilleria Liquori Giuseppe Ferrigno fu Francesco", con sede a Vietri sul Mare in Piazza Matteotti, meglio conosciuta come "for'o fort(e)".

Per reclamizzare il "Masaniello" don Peppe Ferrigno aveva fatto realizzare una splendida locandina, che aveva il fascino delle immagini antiche, dei costumi napoletani, esaltati da brillanti colori.

Don Peppe aveva iniziato a lavorare come commerciante di cruscami e, nel suo girovagare, aveva conosciuto una giovane e bella calabrese, discendente da una famiglia baronale. Se ne innamorò e la sposò. Don Peppe era un gentiluomo, di quelli veri di una volta che oggi è rarissimo incontrare, tanto che, sistematicamente, comprava e riconsegnava al suocero le proprietà che questi perdeva al gioco.

Era la fine degli anni venti quando don Peppe passò nel campo dei liquori, mettendosi in società, a Cava de' Tirreni, con un certo Di Lieto. Ben presto, però, restò solo e nel 1932 iniziò la produzione di liquori a Vietri sul Mare, in locali ricavati da uno sbancamento di un terrapieno situati dove ora è lo svincolo dell'autostrada Napoli-Salerno.

Erano cinque locali in tre dei quali era la distilleria: a seguire, vi era il panificio di Gaspare Pinto, quindi il negozio di ceramiche dei Solimene. Nell'angolo con il settecentesco palazzo vi era una croce a ricordo di una missione dei Padri Passionisti, a seguire il bar di "Nunziata". Di fronte a quei locali, all'inizio della strada amalfitana, vi era una lunga teoria di sontuosi platani, all'ombra dei quali sostavano le carrozze con cavallo in attesa dei "forestieri" che giungevano alla stazione di "Vietri-Amalfi", come recitava il cartello delle Ferrovie dello Stato.

Il liquorificio prosperava ed ebbe un limitato fermo solo durante la guerra, "perché - ricordava il nipote Pino - non si riusciva sempre a trovare l'alcole".

Dai lucidi alambicchi di rame iniziarono ad uscire prima le essenze e gli estratti, poi i liquori. Erano una dozzina le varietà che si producevano e ci fu anche una vicenda giudiziaria, che vide protagonisti i Ferrigno e gli Alberti, produttori beneventani del famoso "Strega". Secondo gli Alberti l'etichetta del liquore "Sfinge" dei Ferrigno copiava quella dello "Strega". Ovviamente tutto si concluse con la pace, perché don Peppe, con molta sagacia, preferì cambiare etichetta invece di "imbarcarsi in una causa".

Oltre al Masaniello, la Ferrigno produceva anche il Settebello, il cui brevetto era stato acquistato in sede di fallimento della ditta Alvigi di Salerno. E nel listino non mancava il Fiore Alpino, con la caratteristica bottiglia allungata al cui interno era un bellissimo ramo coperto da cristalli di zucchero. Don Peppe Ferrigno morì nel 1948, ma la sua opera fu continuata dal figlio Michele che, dalla metà degli anni '50 e sino al 1962, portò l'azienda a fatturati record per l'epoca: 45 milioni annui, dando lavoro ad una dozzina di operai nella distilleria di "for'o dort(e)".

Nel 1954 l'alluvione distrusse i locali e la ditta, temporaneamente, si trasferì in alcuni ambienti di Corso Umberto. Poi l'espropriazione del 1962 da parte dell'ANAS per la costruzione dello svincolo autostradale fece trasferire la distilleria in alcuni locali di Via Mazzini.

Ma fu come se una vecchia e nobile pianta fosse stata estirpata per essere trapiantata altrove, trapianto che non riuscì, perché era venuto meno l'humus originario, lo spirito di famiglia che aveva aleggiato in quegli anni di duro lavoro postbellico.

Per la "Premiata Distilleria Liquori Giuseppe Ferrigno fu Francesco" cominciò la fine: il liquore "nostrano" veniva superato dal whisky e dal brandy, che facevano molto chic. Tutto era molto americano, tutto era "dolce vita"!

A questo, come spesso succede in Italia, va aggiunta l'esosità del fisco e dei dazi, e una sleale concorrenza di chi produceva e smerciava a nero.

Don Michele Ferrigno - che per anni aveva percorso la Campania e le vicine Basilicata e Calabria a bordo di una "Ardea", indossando un cappellino che lo faceva molto "inviato al Giro d'Italia", era ormai stanco e il figlio, terza generazione, era demotivato. Così nel 1968 la Premiata Distilleria chiuse definitivamente i battenti. Gli alambicchi furono raffreddati e il lungo becco smise di gocciolare.

Restarono nella memoria storica qualche bottiglia in casa di collezionisti e qualche etichetta con su scritto "Settebello" o "Gran Liquore Masaniello", la cui fantasia di agrumi resta un segreto dei tempi in cui le cose sapevano di buono e di autentico.

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