La delusione di Marta

Dopo tante indecisioni accetta l’invito di un vicino che si rivelerà assai poco generoso

di MARIANNA BASSI

Finalme. nte, dopo una serie infinita di rifiuti, ho deciso di accettare il passaggio dal signor Fridimano.

Pioveva a dirotto dalla notte precedente, ero infreddolita e stanca.

Ancora adesso non sono come sia riuscita a infiltrarmi nella folla per rubare l’unico angolo sotto la pensilina dove non arrivassero i getti d’acqua delle auto in corsa.

La fermata del bus sembrava una piscina in procinto di debordare, il mare alle mie spalle si intravedeva appena dietro una densa foschia. E le palme del lungomare stentavano a reggersi spinte da un vento gelato.

Io e il signor Fridimano abitiamo nello stesso quartiere e lavoriamo a pochi metri di distanza, esce dall’ufficio alla stessa ora in cui aspetto il bus per tornare a casa. Mi ha offerto un passaggio più volte. Lo fa in un modo che ormai mi è familiare: frena timidamente con l’auto e con un cenno inconfondibile della sua testa grossa e stempiata mi invita a salire. Sembra pronto a dare tutto se stesso con quel cenno della testa. Ma quando sente il mio “no grazie”, con un’espressione stizzita scrolla le spalle e va via a tutta velocità.

Riparte con una disinvoltura che sorprende se ci si concentra sulla sua età e su quella della sua auto.

Presumo che qualsiasi persona dotata di ragionevolezza, pur di evitare le lunghe attese alla fermata del bus, avrebbe accettato un passaggio dal signor Fridimano.

Evidentemente non è il mio caso: ho più di quarant’anni ma la mia ragionevolezza, spesso, si piega davanti a certe scomode abitudini. E mi ostino a mantenerle vive quelle abitudini, come se fossero indispensabili per sopravvivere. Per esempio, fin da bambina, anche nei momenti più difficili, alla gentilezza altrui sono solita rispondere con un metodico rifiuto. E’ probabile che il mio atteggiamento sia dettato da diffidenza, da ottusità, da imbarazzo o solo dal timore di disturbare il prossimo - lo ignoro tutt’ora - ma anche se ho un forte desiderio di dire sì, appena qualcuno mi offre un aiuto sento uscire dalla mia bocca le parole “no grazie”.

Anche con il signor Fridimano è andata così. E poi a pensarci bene quando mi offriva un passaggio, il mio corpo veniva attraversato da una fitta di inquietudine all’idea che dovesse allungare, anche se di poco, la strada. Immaginavo la sua famiglia stretta attorno ad una tavola pronta, ad attenderne ansiosa il ritorno mentre, con una leggerezza vicina all’indifferenza, approfittavo del passaggio.

Certo ero consapevole del fatto che il Signor Fridimano era vedovo e solo, ma lo strano legame con la mia abitudine al rifiuto si fa forte con fantasie che accompagno con piacere.

E mi guardavo attorno con aria tronfia dopo il mio “no grazie”, orgogliosa di non aver abbandonato chi, come me, aspettava il bus. In fondo con quel rifiuto dimostravo al prossimo la mia solidarietà.

La pioggia torrenziale di oggi mi ha fatto cambiare idea.

Quando la A112 rossa si è affiancata alla pensilina e da una sottilissima linea tra il vetro dell’auto e il mondo fuori è filtrata la voce del signor Fridimano, con una prontezza sorprendente ho annuito.

Ho notato che non aveva mosso la testa con il suo solito cenno del capo e spinta da una improvvisa propensione davanti al cambiamento mi sono precipitata in auto.

Non è riuscito a fermarmi neanche l’imbarazzo per la mia massa di capelli ricci spettinati e inumiditi dall’ acqua.

“Finalmente, Marta”, ha detto seriamente sorpreso il signor Fridimano, guardandomi con un’espressione vacua da cui, nonostante tutto, poteva intravedersi una certa soddisfazione.

E per la verità eravamo entrambi soddisfatti. Io mi sentivo così sollevata ad aver accettato il passaggio.

In fondo era stato così semplice sentire uscire dalla mia bocca un sì, accogliere quel gesto generoso e gentile senza la solita resistenza. E poi mi lusingava vedersi rivelare, di minuto in minuto, sul suo volto tondo la gioia per il passaggio accettato.

Continuava a piovere senza sosta eppure seduta in quell’auto mi sentivo serena.

Io e il signor Fridimano, dopo l’iniziale imbarazzo, non abbiamo mai smesso di chiacchierare durante il tragitto. Il lavoro, i problemi del nostro quartiere, le seccature quotidiane, la voglia di cambiare, la dieta mai iniziata, l’inverno così piovoso e il desiderio forte dell’estate. Abbiamo parlato di tante cose io e il signor Fridimano.

Stavo proprio per finire un discorso sull’amore condiviso per il mare quando ha frenato d’improvviso. L’ho guardato perplessa, non riuscivo a capire dove fossimo, la pioggia copriva i vetri dell’auto come una coltre: “Come mai si ferma qui?” ho chiesto.

Il signor Fridimano ha scrollato le spalle alla sua solita maniera e ha detto: “Non posso fare certo tutto il giro del quartiere per accompagnarla”.

Sono scesa dall’auto con uno scatto nervoso senza dirgli neanche grazie. Non vedevo l’ora di essere fuori da quella che d’improvviso mi sembrava una gabbia per topi e nell’impeto di scappare ho dimenticato anche l’ombrello. Fuori pioveva ancora più forte mi sono rifugiata davanti all’ingresso di un bar con la saracinesca semichiusa e ho iniziato a piangere, come se fosse stato il mio unico desiderio da anni. E forse lo era sul serio. Con le mani che mi tremavano per la rabbia, mentre maledivo me stessa e il signor Fridimano, ho chiamato un taxi.

Il tassista mi ha accompagnata con il suo ombrello fino al portone di casa e poi mi ha accarezzata, con una tenerezza paterna che mi mancava.

Non voleva farmi pagare ma sono riuscita a infilare nella tasca del suo impermeabile il doppio della corsa. Sono rientrata a casa e senza neanche togliermi l’impermeabile mi sono messa alla finestra. Ho visto che la pensilina di fronte era piena di gente che aspettava il bus, un’auto si è fermata per far salire due persone. Non pioveva più.

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