CARTA GIALLA

La biblioteca del re aragonese

A Napoli Alfonso I raccolse i libri dei maggiori umanisti e diede sostegno a numerosi scrittori

Quando, il 12 di giugno 1442, Alfonso I d’Aragona fece il suo trionfale ingresso a Napoli, avendone strappato regno e corona a Renato d’Angiò dopo sette anni di guerra, non sapeva ancora di dover passare alla storia come Alfonso “il Magnanimo”. Complicate trattative politiche e campagne militari da lui condotte non avevano ancora rivelato nel potente sovrano un’accentuata inclinazione a contornare se stesso e la sua corte di libri, di dotti umanisti e poeti, e una propensione a finanziare la costruzione di architetture monumentali e rappresentazioni celebrative del suo nuovo regno, come quella eternata nelle pietre dell’arco trionfale di Castelnuovo, già struttura simbolica del potere angioino, dove troveranno posto sia la biblioteca della nuova dinastia che lo “Studium”. Così, se Firenze potrà avere “il Magnifico” Lorenzo, Napoli si ebbe il suo “Magnanimo” Alfonso già qualche decennio prima. Le vicende legate alla dinastia aragonese, destinata a durare sul trono napoletano poco meno di un sessantennio, sono note e consolidate negli annali storici della prima età moderna, tuttavia i dettagli e la consistenza della ricchissima biblioteca, composta in prevalenza da codici e manoscritti miniati su pergamena, messa insieme da Alfonso e continuata da suo figlio Ferrante, una volta scomparso l’inventario è difficilmente ricostruibile nella sua interezza. Tammaro De Marinis, noto studioso e bibliofilo napoletano, che fu anche collezionista e mercante di rarità bibliografiche, nell’arco di oltre un ventennio, tracciò la monumentale storia della formazione della biblioteca aragonese, sulla base di precedenti lavori dello studioso napoletano Mazzatinti e di documenti ritrovati tra le cedole di tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli: Tammaro De Marinis, “La Biblioteca napoletana dei re d’Aragona” (6 voll. Verona-Milano, 1947-1969).

Già con un primo opuscolo del 1909, “Per la storia della Biblioteca dei Re d’Aragona in Napoli”, stampato in 50 esemplari fuori commercio presso lo Stabilimento Tipografico Aldino di Firenze, il De Marinis pubblicò un importante documento, acquisito in quell’anno dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, che attestava l’inizio della diaspora della ricchissima raccolta aragonese già al tempo del successore di Alfonso, Ferrante: con atto pubblico vi si riassumono i debiti contratti col banchiere Battista Pandolfini, tra cui figura un prestito di 15.000 ducati del gennaio 1481, a fronte del quale Ferrante cede come pegno diversi gioielli, 46 libri a stampa e 199 manoscritti miniati, debitamente elencati dal documento. Una consistente parte della biblioteca fu poi saccheggiata da Carlo VIII nel 1495, e altre parti furono vendute a Luigi XII da Isabella, vedova di Federigo d’Aragona, o trasportate in Spagna dal duca di Calabria. 581 codici posseduti dalla Biblioteca nazionale di Parigi e dalla Biblioteca universitaria di Valencia è quanto si è oggi potuto con certezza rintracciare della più celebre biblioteca europea del Quattrocento. Nonostante la lingua di corte fosse lo spagnolo, catalani costumi e usanze dei suoi funzionari, le preferenze letterarie di Alfonso I furono verso l’Umanesimo italiano e un carattere italiano ebbe la sua raccolta libraria. Dice Benedetto Croce nella sua “Storia del Regno di Napoli” che «la corte di Alfonso rinnovò in Napoli la magnificenza di quella di re Roberto e il culto e il favore dato agli studi». Saremmo portati però a credere che tra la metà del Quattrocento, al tempo di Alfonso, e ancor più presso la corte di Ferrante, che largamente favorì l’introduzione della stampa a Napoli dal 1471, fino alla sua morte nel 1494, il movimento intellettuale sia stato più ampio e sostenuto di quanto si creò intorno alla corona angioina nella prima metà del Trecento, anche perché gli scrittori umanisti vi ebbero maggiore libertà di parola: per esempio, Lorenzo Valla, uno dei grandi nomi accolti e ammirati da Alfonso I, sotto la protezione di quel re poté scrivere nel 1440 il trattato “Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata” (“De falso credita et ementita Constantini donatione”), e benché questo gli procurasse l’accusa di eresia, il suo discorso demolì una volta per tutte la presunta base storica e giuridica del potere temporale dei papi. Il recente lavoro di Pasquale Natella sui Sanseverino (vedi “La Città” del 5 aprile 2019), attraverso le vicende riguardanti i due principi di Salerno, Roberto e Antonello Sanseverino, traccia la cornice storica, di sapida lettura, del regno e della vita civile al tempo di Alfonso e di Ferrante, e vi emerge in fondo il senso “pratico” (stavamo per dire materialistico) della storia, laddove - pur riconoscendo il mecenatismo dei primi due re aragonesi e dei principi Sanseverino - si registra anche per essi il netto predominio della politica fiscale e del controllo militare. I cannoni e le spade sono le ultime ragioni dei re e non le opere scritte in latino elegante, rifletteva ironicamente già Niccolò Machiavelli. Detto ciò per evitare false immagini del potere, va però ricordato che Alfonso nel 1446 assegnò ben trecento ducati di stipendio al suo “scrittore della biblioteca”, Jacopo di Antonio Curulo col compito di trascrivere varie opere della classicità greca e latina, contrassegnando i manoscritti con l’emblema reale di un libro aperto, anticipando l’uso degli ex-libris.

Al famoso umanista Antonio Beccadelli, detto “il Panormita”, affidava Alfonso, lautamente pagandolo, il compito di seguirlo ovunque, leggergli nelle pause Cesare, Seneca, Tito Livio, sovrintendere e dirigere il lavoro continuo degli amanuensi impiegati nello “Studium” annesso alla biblioteca. Le cedole della tesoreria aragonese attestano l’acquisto di molti codici, straordinari per bellezza e unicità, come la “Cosmografia” di Tolomeo, pagata 170 ducati nel 1453. Durante il regno di Alfonso I nella gran sala della biblioteca, affacciata sul mare davanti Castelnuovo, si avvicendarono, tenendovi lezione, letterati e umanisti come il Panormita, il Trapezunzio, il Tifernate, Giorgio da Trebisonda, Lorenzo Buonincontri e, dopo il 1455 il celebre Giovanni Pontano, che con Ferrante proseguì la sua carriera di letterato e politico, arrivando a succedere al Panormita a capo dell’Accademia e a presiedere la Regia Camera della Sommaria. La prospettiva politica di Alfonso, volta a dare nuova linfa e consistenza alle finanze dissestate dell’ultimo Angioino, autonomia e pace al nuovo regno, si completava con la volontà di affidare alla vita culturale la funzione di ulteriore strumento per affermare la propria personalità e il proprio dominio, anche se questa sua prodigalità verso preziosità librarie e letterati profumatamente stipendiati, costò caro all’erario di corte che, alla sua morte nel 1458, era quasi del tutto prosciugato. Per una aggiornata conoscenza della biblioteca aragonese: “Libri a Corte. Testi ed immagini nella Napoli aragonese”, il catalogo della mostra bibliografica ed iconografica tenutasi a Napoli, tra Palazzo Reale e la Biblioteca Nazionale, dal 23 settembre 1997 al 10 gennaio 1998.