L'ultimo applauso al maestro

Una vita passata in scena e il forte legame con Salerno

SALERNO. “Vicienzo m'è pate a me”. Ricordate questa battuta? Era il piccolo Peppeniello di “Miseria e nobiltà”, e fu il primo ruolo di Luca De Filippo che gli affidò il padre Eduardo a 8 anni. Peppeniello è morto, così, di colpo, lasciandoci attoniti e sgomenti. Ed è morto Nennillo, quello che voleva “a zuppa ’e latte” e dispettoso diceva al padre in “Natale in casa Cupiello”: nun me piace ’o presepe.

E nemmeno a noi ci piace questo presepe di una morte così improvvisa quando lo stavamo aspettando qui a Salerno il prossimo giovedì al Verdi con uno dei classici eduardiani: “Non ti pago”. Un anno fa, a Pordenone, dopo un riposo forzato, accennò a chiusura di sipario ad una sua malattia, un’endocardite da cui si era ripreso, sia pure, come aveva confidato al pubblico, con un grande “rappezzo” al cuore. Pare che sui napoletani aleggi una qualche maledizione, se ne vanno giovani o nel pieno delle loro attività. Troisi, Ruccello, Daniele e ora Luca De Filippo.

In un'intervista fattagli nell’81 dopo un debutto al Quirino, quando ormai il vecchio Eduardo si avviava a lasciargli il testimone, mostrava un animo schivo, una riottosità simile a quella del giovane Cupiello: non gli piaceva il ruolo dell'erede, gli andava stretto, oberato dal peso di quel repertorio che stava per cascargli addosso. Ma è così che funziona nelle grandi famiglie teatrali: Pulcinella consegna la maschera, gli attori si passano il testimone di padre in figlio e lui, volente o nolente, quel testimone alla fine lo aveva afferrato e anche quella stessa maschera, la fronte stempiata, le guance scavate, la voce strascinata. Lui si sentiva soprattutto un artigiano che aveva ereditato la bottega, la “ditta”, più che l'arte. Non gli piaceva la retorica del grande attore che pure aveva circondato per lustri il padre ma intanto ne continuava gli infiniti personaggi della scena.

Benedetto Croce, diceva, sostiene che il teatro muore con l'interprete; ci teneva a dire che lui, nato e cresciuto a Roma, non si sentiva un attore napoletano ed era così ingombrante quell’eredità che agli esordi si faceva chiamare Luca della Porta, perché voleva iniziare a lavorare senza “gli occhi puntati su di me”.

E quando si sentiva incalzato, ammetteva che gli piaceva, del padre, quella grande varietà di sentimenti e di personaggi.

Eppure questo destino lo inseguiva implacabile, il primo suo debutto teatrale è con “Il figlio di Pulcinella” e intanto si allena con tutti i classici del repertorio, da “don Domenico Soriano” al “Sindaco del Rione Sanità”, al reduce di “Napoli milionaria”, e anche con la sua compagnia ripercorre il repertorio paterno spesso ritagliandosi le parti più leggere, come in “Non ti pago”, “Uomo e galantuomo”, o “Ditegli sempre di sì”.

Rinnova, rimescola, esce dalla gabbia da primo attore e diventa un regista, un produttore, scegliendosi anche compagni di diversa scuola come Umberto Orsini o misurandosi con altre tradizioni, francesi come Moliére o Feydeau o più contemporanee come Pinter e Beckett. Uno dei suoi più assidui compagni di lavoro è il regis. ta Armando Pugliese che gli dirige esilaranti e indimenticabili opere del nonno Scarpetta, come “’O scarfalietto” o “Questi fantasmi” o “La dodicesima notte” di Shakespeare. Ma nessuna scuola, nessuna tradizione; piuttosto un mestiere da attraversare come un viaggiatore e alla fine il giudizio calava come un macigno: sì, gli attori napoletani sono bravi ma poi non fanno che ripetersi tutta la vita. E lui per non ripetersi passava dal repertorio paterno ai giovani drammaturghi come quando produsse “Angeli all'inferno” di Francesco Silvestri o si andava a cercare nuove scritture come Cerami che gli scrisse “La casa al mare” che lui mise in scena con Lello Arena.

Gli piaceva sperimentare altre strade, cinema, lirica, televisione.

E tutto gestito da imprenditore, una compagnia in ottima salute, il San Ferdinando trasformato in Fondazione; la scuola di recitazione al Mercadante e la continuità dell'impegno a favore dei minori come già il padre senatore.

Era venuto spesso a Salerno. Lo ospitò lo scorso anno in occasione del trentennale della morte di Eduardo, il Teatro delle Arti con lo spettacolo “Sogno di una notte di mezza sbornia” e sempre a Salerno portò la “Grande magia” nel 2012.

Era quasi un appuntamento fisso del cartellone annuale del Verdi, essendo la sua una delle compagnie più amate e apprezzate. Per questo ci piacerebbe che il 3 dicembre il teatro Verdi lo festeggiasse, come se lui fosse ancora lì, a presentare come ogni anno il suo spettacolo al pubblico salernitano.

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