L’ultima pastorara del centro storico

La storia di Fortunata Notini e della sua arte

di VITO PINTO

E' . chiamato Vicolo Giudaica quel tratto di stradina stretta che dalla chiesa di Santa Lucia a Salerno sfocia avanti alla chiesa di S. Agostino. Il suo nome, quel vicolo, lo deve alla presenza, nel Medioevo, di numerose attività commerciali di ebrei, i Giudìa, come allora si diceva. E il nome è rimasto anche per ricordare che alla regola sanitaria della prestigiosa Schola Salerni, avevano contribuito anche medici ebrei, insieme a luminari latini e arabi.

Già alla fine degli anni '50 del secolo appena passato, a metà di questo vicolo era la bottega di Fortunata Notini, donna minuta, dall'indole buona e gentile, capelli d'argento a corona di faccia rugata dove brillavano piccoli occhi ridenti. Era conosciuta da tutti quelli, salernitani e non, che nei giorni precedenti il Natale si recavano nella sua bottega in cerca di un pastore nuovo o di uno da sostituire sul presepe di casa. Donna Fortuna, così era conosciuta, per mestiere faceva la “pastorara”, era una di quegli artigiani facenti parte di una categoria ormai scomparsa. Con l'avvento della plastica, di pastori di creta, cotti in fornetti a volte improvvisati e decorati a freddo, di casette di cartone, come quelle che faceva a Vietri sul Mare Marietta Arcella, la mamma del maestro ceramista Andrea D'Arienzo, non se ne trovano più. Ed è proprio il caso di dar ragione al filosofo che diceva: panta rei! (tutto scorre).

Ma fin quando è stata in vita, la pastorara di Vicolo Giudaica non ha mai deluso i suoi clienti, affezionati o occasionali, che cercavano un pastore per il loro presepe di casa.

Per mesi Donna Fortuna, con le sue piccole ed agili mani, che col passare degli anni si raggrinzivano sempre più, prendeva la giusta quantità di creta e la pigiava negli stampi di varia grandezza per modellare le figurine da cuocere e poi decorare con colori a freddo, dando vita e respiro alle sue figurine per un presepe altrui. A noi piccoli sciocchi sembrarono così belli i pastori in plastica, con i loro colori brillanti di fronte a quelli con i colori a freddo, opachi! Li avremmo a lungo rimpianti, quei pastori di creta e ricercati con affannosa nostalgia tra gli antiquari o in qualche vecchia scatola di cartone dimenticata in qualche soffitta.

Chi entrava nella bottega di Donna Fortuna si trovava subito di fronte a scaffali di traballante legno, sui quali vi erano sistemati, con bell'ordine di genere, Madonna, San Giuseppe e Bambinello, Re Magi, Angeli con trombe, incensieri, cartigli osannanti a Dio nell'alto dei cieli e portando pace in terra agli uomini di buona volontà. E poi vi erano i pastori, quel popolo umile a cui il Salvatore si era mostrato quasi a testimonianza che fossero gli unici destinatari di un messaggio eterno. Non mancavano i truci soldati ammazzabambini di Re Erode, né i mori con i loro svariati strumenti a formare la banda musicale. E cosa dire, poi degli zampognari, dei vari Benino, dormiente in varie pose, e ancora di quella lunga schiera di pecore, cavalli, cammelli, galline ed altro mondo animale che corredava una scenografia fantasiosa, ma ricca di quella gioiosa serenità che solo Natale sa donare a grandi e piccini.

Il locale di Donna Fortuna era a piano terra, mentre una sgangherata scala in legno a fil di muro lesionato portava ad un piano superiore, dove, forse, la pastorara abitava. In un angolo donna Fortuna si era ritagliato una sorta di banchetto da lavoro, vicino alla porta era il fornetto per cuocere i pastori, circondato da mucchietti di cenere.

Una volta il forno scoppiò e dovettero intervenire i pompieri: un fumo nero da asfissiare; alla fine, però, gli avventori della bottega trovarono i pastori che loro servivano nelle scatole di cartone o nelle cassette di frutta dove Donna Fortuna metteva quelli in soprannumero di capienza degli scaffali. A fianco del banchetto erano pile di giornali con i quali incartava i pastori ai clienti: confezione alla buona, ma piena di gestualità antica che sapeva di rapporti umani. Appeso al soffitto e al centro dl locale era una sorta di lampadario perennemente dondolante per il vento e che creava strane ombre sulle pareti della bottega.

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