L’insidia Trump nel grande Iran

Il nuovo racconto geopolitico di Acconcia

«Ai miei occhi, il popolo iraniano vive un momento politico, culturale, sociale e civile unico. In Iran, tutto è il contrario di tutto: la libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto. Tehran è una città bizzarra. Vista dall'alto sconvolge con i suoi 15 milioni di abitanti che si riversano su strade straripanti di macchine, taxi e moto».

Sono le parole che Giuseppe Acconcia, giornalista salernitano de “Il Manifesto”, dedica alla terra in cui ha vissuto e che ha imparato a conoscere, grazie ai suoi lavori di reportage. Ne è uscito fuori un libro, “Il Grande Iran” (Exorma edizioni, pp. 240, 14.50 euro), che è insieme racconto, saggio, mappatura geopolitica e orizzonte prospettico sul futuro Medio Oriente. Dalla dinastia dei Qajar, alla rivoluzione del 1979, fino alle primavere arabe e all’accordo sul nucleare, più una singolare intervista al filosofo e storico Noam Chomsky. Il volume di Acconcia potrebbe approdare anche alla Fiera del libro di Teheran.

Come nasce questo libro?

È il frutto di dieci anni di esperienza. Un periodo iniziato nel 2004-2005 quando lavoravo nell'ambasciata italiana a Teheran. Questo paese l’ho vissuto in fasi anche molto delicate. Nel 2009, quando c’erano le proteste per la rielezione di Ahmadinejad. Poi, dopo le elezioni di Rohani, attuale presidente moderato. Dopo 8 anni di politica ultraconservatrice, oggi il paese si apre al mondo grazie all’accordo sul nucleare e la nuova presidenza sta dando rinnovo alla società civile iraniana. Volevo raccontare il Medio Oriente e mi è sembrato giusto cominciare da questo paese. Prima avevo scritto due volumi sull'Egitto e le rivolte. Purtroppo quei movimenti sono falliti e le richieste che venivano dai giovani, dalle donne, dagli attivisti non hanno ottenuto molto. In Egitto adesso c’è un regime militare. Mi sembrava importante quindi raccontare l’unica rivoluzione che ha avuto successo in Medio Oriente, cioè quella iraniana del 1979.

L’Iran resta un paese complesso?

Sicuramente. Nel libro parto dall’epoca dei Qajar. Già a quel tempo c’era una fortissima società civile, giornali, università. La società iraniana era più progressista rispetto ad uno stato conservatore. Una condizione che si è mantenuta nel tempo. L’Iran è sempre stato un paese all’avanguardia. Nonostante la Repubblica islamica, esiste una cinematografia straordinaria, teatro, musica, una partecipazione femminile alla vita pubblica incredibile. Il colpo di stato nel 1953 con l'intervento degli Stati Uniti fu un momento cruciale. Nel 1979 la rivoluzione ha ripristinato l'identità del popolo iraniano. Ma dopo il successo della rivoluzione e il ritorno di Khomeini, una parte delle richieste del popolo è stata disattesa.

Gli iraniani come interpretano la presenza straniera?

Nel tempo vissuto a Teheran ho cercato di vivere il più possibile immerso nella società persiana. L’Iran è il paese del dispotismo e delle lotte civili, il più democratico del Medio Oriente per cultura politica e civile. Gli iraniani hanno un profondo orgoglio e rispetto per il racconto che si fa del loro paese, ma spesso vedono forzate le ricostruzioni fatte dagli stranieri e dagli orientalisti. In generale c’è una grande voglia di conoscere lo straniero, di accoglierlo. Ho avuto la fortuna di entrare nel profondo di questa terra, sono stato ospite di tante persone. Ho potuto osservare il controllo imposto dalle istituzioni sulla vita pubblica, un controllo quasi scientifico da una parte – le donne, ad esempio quando sono in viaggio in aereo devono mettere un velo, anche le donne straniere – mentre dall’altra parte c’è un grande spazio di libertà.

Ma c’è ancora tensione sulla questione del nucleare tra Iran e Usa.

Sì. I repubblicani vogliono tornare indietro sui loro passi. Lo scorso 2 dicembre è stata approvata una estensione delle sanzioni contro Teheran, in violazione dell’accordo sul nucleare raggiunto a Vienna nel 2015. Trump ha detto che il popolo iraniano è fatto di terroristi. Obama aveva puntato sulla fine delle sanzioni, sebbene anche la sua amministrazione non abbia accelerato molto sulla risoluzione. La politica di Bush figlio è stata quella di costruire un grande Medio Oriente, che significasse esportazione di democrazie. Questo concetto di democrazia esportata nasce nel 2001 con la tragedia della Torri Gemelle. Quindi la guerra in Iraq, Afghanistan. Una carneficina continua, che ha portato a rafforzare l'Iran. Dopo il 1979 questo paese non ha mai pensato di esportare il modello rivoluzionario ma di stabilizzarsi e rafforzare le istituzioni interne. Ecco che si è costruito un Grande Iran.

Ci tornerà?

Spero al più presto possibile. Tra l’altro c’è un grande incremento del turismo. L’Italia è il partner commerciale dell’Europa con l’Iran. Una adeguamento frenato con Berlusconi, ma adesso siamo in una fase di riavvicinamento tra i due paesi.

Davide Speranza

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