GUERRA IN MUSICA

L’Iliade ittica del guarracino

Un genio anonimo nel Settecento mise in note una maxi-rissa sul fondo del mare

di ALESSIO DE DOMINICIS

Piccole e grandi guerre, tafferugli e risse armate sono il tema frequente di molte tradizioni letterarie del passato, e spesso col ruolo di protagonisti in quegli scontri favolosi sono rappresentate le bestie: rane, bisce, tori, sorci e donnole in battaglia troviamo nelle favole di Fedro come in quelle popolari d’ogni tempo, ma a nessuno venne mai in mente di ambientare una maxi-rissa sul fondo del mare. Ci pensò invece, a Napoli nella seconda metà del ’700, un anonimo genio musicale che mise in forma di ballata, a ritmo di tarantella, la piccola e ormai arcinota “Iliade” ittica, la “Canzone del guarracino”.

Nel corso del secolo scorso furono poi numerosi gli studi e le esecuzioni, con varianti diverse, di quel testo musicale, risalente secondo alcune fonti al 1768. Benedetto Croce scrisse parole di ammirazione per quella «fantasia dal brio indiavolato», e tra i primi saggi si ricorda quello di Gino Doria, edito da Ricciardi nel 1933, ma il tema era già stato trattato da Francesco De Bourcard (“Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti”, Napoli, 1853) e dal compositore ed editore Guglielmo Cottrau, parigino d’origine ma vissuto a Napoli, a cui si deve anche una tra le prime trascrizioni del poemetto (1825), nella partitura classica ancora oggi in uso.

Oltre lo scritto di Doria molti altri ne ricordiamo, anche notevoli: quello di Ulisse Prota – Giurleo, Edwin Cerio, Max Vairo, Ettore De Mura, Vittorio Paliotti, Riccardo Pazzaglia, Domenico Rea, fino a Roberto De Simone e altri; ma noi eleggiamo a modello di trattazione filologica – artistica – decorativa, quasi un piccolo gioiello per bibliofili, il volume stampato a Salerno dai Fratelli De Luca nel dicembre 1985, legato con spago di canapa e impresso su carta al tino della Cartiera amalfitana di Ferdinando Amatruda. La grafica del volume è impreziosita dal forte segno delle ironiche e scenografiche tavole in nero di Antonio Petti, quasi maschere quei pesci, personaggi della commedia per musica, che accompagnano il testo della ballata. Quella raffinata pubblicazione- strenna dei De Luca ebbe anche il merito di rieditare un bello e leggero saggio del naturalista napoletano Arturo Palombi (1899 -1987), già apparso sul numero 16/1982 (pag.55-66 ) della rivista trimestrale di bibliofilia di Mario Scognamiglio “L’Esopo”.

Il professor Palombi, studioso esperto di fauna marina e docente di Zoologia alla Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli Portici, tratta appunto dei pesci della canzone raffrontati con quelli che si possono incontrare sui fondali nostrani, assegnando ad ognuno di essi il nome linneiano. Riconoscendo il merito di Gino Doria di aver trattato, per primo con intenti filologici la canzone, Palombi ne contesta tuttavia proprio l’individuazione del protagonista principale, il “guarracino”, che Doria credette di identificare nel Heliases Cromis, conosciuto a Napoli col nome di “Castagnola”: «A mio avviso, siffatto pesce corrisponde all’Anthias anthias. Neppure è da prendere in considerazione il riferimento a un terzo guarracino detto “di scoglio”, corrispondente all’Apogon rex mullorum, il re di triglie, che è bensì di colore rosso, ma non possiede alcun prolungamento delle pinne. Stabilita dunque l’identità del guarracino della canzone con l’ Anthias anthias, vediamo le gesta che il finissimo artista fa compiere al suo protagonista». All’inizio di quella piccola guerra di Troia, c’è – come ognuno sa – il tradimento amoroso: la inizialmente timida “sardella” (la Sardina pilchardus sardina, precisa il prof. Palombi), già fidanzata con l’“alletterato” (Euthynnus alletteratus), diventa poi sfrontata e provocante verso il corteggiante spasimante guarracino, in ciò seguendo i consigli della vecchia mezzana “alosa” (Alosa fallax nilotica): «Fora le zeze e fora lo scuorno,/ anema e core e faccia de cuorno». Appresa così la lezione di malizia, la Sardella «s’affacciaje a la fenestrella,/ fece n’uocchio a zennariello/ a lo speruto ‘nnammoratiello ».

Ma la tresca non passa inosservata, ché la “Patella” (Patella coerulea) «che steva de posta/ la chiammaje faccia tosta,/ tradetora, sbrevognata,/ senza parola, male nata,/ch’avea ‘nchiantato l’alletterato/ primmo e antico ‘nnamorato;/ de carrera da chisto jette/ e ogne cosa ‘lle dicette». A questo punto, come Menelao si tirò dietro un esercito di Achei a vendicare l’onore tradito, così fece pure l’“alletterato” che, armato fino ai denti, con i pesci del suo partito si lancia nella spedizione punitiva contro il “guarracino” e i suoi. Qui parte l’incalzante elenco, in lingua napoletana, di decine e decine di creature marine, schierate da una parte e dall’altra nella zuffa furibonda, e noi diamo la parola al professor Palombi e al suo dotto commento: «Degli ottantadue animali menzionati dall’autore nella canzone, ben sessanta si riferiscono a pesci marini, mentre soltanto due sono pesci di acqua dolce (Tinca e Trota). Tre sono i mammiferi, tutti riuniti nello stesso verso, ed è strano che siano ricordati animali non del mediterraneo, nel quale mare solo occasionalmente sono presenti, mentre mancano i Delfini (a Napoli detti “Feroni”) che invece vi si incontrano. Undici sono i Molluschi citati, distinti in Gasteropodi (quattro), Lamellibranchi (tre) e Cefalopodi (quattro).

Tre sono i Crostacei, due gli Echinodermi ed uno il Tunicato ricordato, cogli altri Invertebrati, alla fine del poemetto. Indubbiamente, l’ignoto artista conosceva egregiamente la fauna marina tanto da trarne il gustoso poemetto, delizia di molte generazioni, e non esiterei a rite- nerlo uno dei pochi ma valorosi naturalisti napoletani del ’700». Ma, aggiungiamo noi, il rapsòdo settecentesco conosceva bene anche l’arte narrrativa “a puntate”, tant’è che, nel pieno della mischia e delle mazzate: «Quanta botte, mamma mia! /Che se dévano, arrassosia!.. Muorze e pìzzeche a beliune! A deluvio li secozzune!», nel momento in cui la battaglia si estende: «Non ve dico che bivo fuoco/ se faceva per ogne luoco! », la narrazione, di botto, s’interrompe con la richiesta di una pausa: «Ma de cantà so già stracquato/ e me manca mo lo sciato;/ sicché dateme licienzia,/ graziosa e bella audenzia,/ nfì che sorchio na meza de seje,/ co salute de luje e de leje,/ ca se secca lo cannarone/ sbacantànnose lo premmone». Né più riprende. Così, tacendo l’aedo, non conosceremo mai più l’esito di quegli scontri, essendo i pesci notoriamente muti.