Arte

L’eremita che canta il mito 

Domani a Paestum la presentazione del libro di Sergio Vecchio edito per Oèdipus

PAESTUM. Una pittura antica che si proietta nel futuro, parla di Arcadia intesa come nostalgia del ricordo, sfuma e accende colori sull’inquietudine tipica di chi è abituato alla scarnificazione interiore. In poco più di 130 pagine, tra scritti e illustrazioni, Sergio Vecchio, l’artista che ha contribuito più di chiunque altro a far brillare nel mondo il nome e la storia di Paestum, apre le porte del suo “io” e di oltre quartant’anni di carriera, per raccontarsi e raccontare a chi legge, l’alfabeto zoomorfo di uccelli, bufale, cavalli, cani, pesci e gatti, quello classico di metope e frutti, quello erotico di corpi e figure femminili sospese tra mare e magma, e tramonti, mantidi, arpie, gazze, lentischi che lambiscono l’heraion, storici, stagioni e valige con l’orologio pronte a un viaggio sempre diverso.
“Le stanze dell’eremita”, Oèdipus edizioni, è il titolo del volume che sarà presentato domani alle 18 presso il Museo Archeologico Statale di Paestum, che si avvale di note introduttive e prefatorie di Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico e di Paolo Apolito (antropologo e docente all’Università di Roma Tre), relatori insieme al senatore Alfonso Andria, con il coordinamento dell’editore Francesco G. Forte. Vecchio ruba poche e nitide parole a Giorgio Morandi per presentare il suo lavoro: «La mia infanzia è semplice come tutta la mia vita, informata da un gran desiderio di star solo e di non essere seccato da nessuno». La solitudine è quella antica, riconquistata nella grande residenza di famiglia a Paestum, luogo dell’anima e terra di ispirazione estetica, dove lavora tra pittura, scritture ed elaborazione grafica, particolarmente su temi della Magna Grecia. Cento passi lo separano da quel museo che ha visto crescere e svilupparsi, fin da quando, bambino, osservava curioso e ammirato Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco che battevano la zona per le loro prime ricerche archeologiche. Ecco perché busti, capitelli, divinità e frammenti di una storia lontana, sono i binari su cui, da sempre, si muove la sua ricerca, sia con i pennelli che con le parole. «Nelle opere di Sergio Vecchio archeologia e arte contemporanea svolgono un incontro organico, dinamico e energetico – osserva giustamente Zuchtriegel nella prefazione – Il suo modo di lavorare non ha nulla a che fare con approcci sensazionalistici che “sfruttano” l’antico come cornice splendida e conveniente per attirare l’attenzione. Si percepiscono la profonda riflessione, la meditazione e lo sguardo attento. Per un archeologo come me, tutto questo ha un grande fascino, proprio perché irrompe nel campo che, come addetto ai lavori sono abituato a vedere da una prospettiva totalmente diversa».
È lo sguardo semplice e profondissimo, libero da sovrastrutture e pregiudizi, che regala a Vecchio e ai suoi lavori, la capacità di essere leggeri, nonostante il buio, la solitudine, l’inquietudine, tematiche si rincorrono nelle sue tele e che sembrano comporre la griglia dei testi scritti d’impulso, a riammagliare Parmenide e rimorsi, l’universo femminile e i santuari, Strabone e i bar al carboncino. Poi, scrive Vecchio, non esistono d’improvviso più taverne. «Si ritorna al caldo dello studio più confusi di prima e si cerca aiuto alla pittura che non ti consola ogni giorno, è la solita storia, si ricomincia da capo e ogni volta tutto rimane come prima».
Ma tra gli incubi notturni e la seduzione della memoria, risplende l’idea di un’armonia inseguita, come un uccello velocissimo, che già ha ripreso il volo dopo essersi posato sulla cima di un tempio. L’abilità di Vecchio, è quella di saper riuscire a raccontare un mito. «La sua intera opera, monstrum, cioè “prodigio, fatto o fenomeno portentoso”, come si scrive nei vocabolari, è una lunga, salda, “portentosa” mitografia costruita nelle pieghe melanconiche nello sguardo sul tempo che fugge – è l’analisi dell’antropologo Paolo Apolito – Di cui Paestum costituisce da qualche secolo e ancora oggi forse la più “portentosa” immagine disponibile in questa nostra parte di mondo».
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