Racconti d'estate

Io, Toni, i tre fiumi, i gracili girini

Nei miei occhi tornava la luce. Avevo appena raggiunto il portone correndo senza voltarmi. Trafelato e col cuore alle tonsille, entrai in casa senza fiato: ero salvo.
Avevo undici o dodici anni, la scuola era finita e trascorrevo gran parte delle mie giornate per strada. Da un paio di anni abitavo in un paesino del Meridione, un luogo dimenticato e sperduto che d’inverno contava meno di tremila anime e d’estate si ripopolava col rientro di parenti e giovani che vivevano lontano.
Toni era l’amico più stretto che avevo trovato, aveva cinque anni più di me. Eravamo soliti incontrarci ogni pomeriggio, andavo a bussare a casa sua, o viceversa. Trascorrevamo la maggior parte del nostro tempo nel cortile, a dare calci a un pallone, oppure a giocare a schiacciasette, acchiapparello, nascondino, o ancora a passeggiare in bicicletta nei campi, verso i Tre fiumi. Talvolta andavamo a pescare. Fu il motivo per cui domandai una canna da pesca a mio nonno, che mi regalò una delle sue, dotata peraltro di un mulinello ultramoderno. Era una telescopica di colore nero, leggerissima, che tutti mi invidiavano. Inoltre il nonno mi comprò una piccola valigetta con tutto lo stretto necessario: ami, lenze, galleggianti, slamatore, forbici, retino e vari ammennicoli che non avrei mai utilizzato. Gli amici guardavano la valigetta come fosse un luna park e il contenuto come leccornie.
Quando andavamo a pescare, per primo era necessario procurarsi l’esca: armati di qualsiasi cosa per scavare nel letame, cercavamo vermi da conficcare con ami per farne cibo per pesci. Per quanto terribile e violenta, la natura delle cose non ci intimidiva. Non si può dire lo stesso degli incontri coi cani randagi, ma questa è un’altra storia.
A quel tempo i Tre fiumi avevano una fitta popolazione di carpe, boccaloni, triotti, barbi, cavedani e pesci gatto, soprattutto pesci gatto, che in certi periodi abboccavano all’amo privo di esca. Così, nei mesi estivi andavamo spesso a pescare. Al rientro dai Tre fiumi, Toni portava sempre qualcosa: una volta prese la fissa dei girini. Era il tempo in cui montavano le curiosità, e i cuccioli di rana, simili agli spermatozoi, lo entusiasmavano. Voleva studiarli, osservarne la trasformazione.
Il primo giorno tornò con un secchiello colmo. Mise i girini nella vasca del garage, dove li lasciò per la notte. L’indomani non si schiodò da lì: riempiva di acqua bacinelle e altri contenitori e spostava gruppetti di girini qua e là, secondo schemi che non comprendevo.
Verso sera mi chiese di accompagnarlo a prenderne altri. Al terzo giorno erano visibili i primi mutamenti. Gli anfibi si formavano e trasformavano; Toni era eccitatissimo, monitorava le fasi della crescita, e prendeva appunti. Diede un nome ai girini più grandi e sepoltura a quelli che morirono. Poi, per qualche giorno, non lo vidi. Seppi che era andato a Maratea con uno zio di Caracas che voleva vedere il Cristo e il mare.
Una mattina, mentre giravo nel cortile sulla mountain bike, vidi Toni comparire a bordo di una Mercedes con alla guida lo zio, che parcheggiò davanti al garage. Andai loro incontro, Toni quasi non badò a me. Uscì di scatto dalla vettura e mi superò per lanciarsi verso la saracinesca, dove si inginocchiò. Un cattivo odore, di cui ignoravamo l’origine, si incuneò su per le narici. Lo zio imprecò il Cristo di Maratea, il nipote intanto afferrava la maniglia per alzare con decisione la serranda. Negli stessi istanti, la mia piccola gamba destra rinvenne il movimento di un corpo viscido, seguito da un altro alla mancina; sentii qualcosa di molle strisciarmi addosso. Gridai forte.
Come un’inondazione di cavallette, dal buio uscirono centinaia, migliaia di rane. Saltavano ovunque, dentro e fuori il garage, addosso. Toni rideva come un ossesso mentre il piazzale si fece un pavimento punteggiato di infinite, minuscole rane scure. E, nei miei occhi, tutto divenne nero.
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