la recensione

Il teatro di parola di La Ruina sulla scia di Paolini e Curino

di PASQUALE DE CRISTOFARO Il teat. ro di narrazione in Italia ha avuto momenti d’oro negli ultimi due decenni e ancora oggi, riesce a tenere il passo nonostante qualche segno di stanchezza. Paolini,...

di PASQUALE DE CRISTOFARO

Il teat. ro di narrazione in Italia ha avuto momenti d’oro negli ultimi due decenni e ancora oggi, riesce a tenere il passo nonostante qualche segno di stanchezza. Paolini, Curino e Celestini, solo per citare i pionieri, hanno in questi anni imposto sulle scene italiane l’attore che in solitaria prendeva per mano il pubblico e lo portava dentro storie ordinarie che grazie alla loro grande capacità seduttiva diventavano meravigliose avventure per il cuore e per la mente. Il teatro aveva così trovato un felice espediente per rendere meno violenta la crisi che lo aveva colpito a partire dalla decadenza del modello della regia in tutte le sue declinazioni e dopo che le iconoclaste avanguardie degli anni precedenti avevano “ferito a morte” il teatro di parola. I palcoscenici da una ventina d’anni a questa parte, cioè, hanno ripreso letteralmente fiato imponendo il ritorno della parola-racconto per lo più privilegiandone la sua declamazione regionale, che, è bene ricordarlo, da sempre ha rappresentato una risorsa per il nostro teatro.

Una salutare babele linguistica che ha ridato fiducia ed energia espressiva ad un italiano parlato in scena così poco credibile e convincente tanto da essere indicato da molti come una vera e propria anti-lingua. In questo filone di attori narratori Saverio La Ruina si è conquistato un posto di assoluto rilievo. Il suo teatro, fatto di piccole storie d’ordinario orrore, sono da lui condotte con una grazia lieve e una gentilezza sospetta. Mai un sussulto, un urlo, sempre un apparente monotonia ritmica che a lungo andare, però, quasi inconsapevolmente, si tramuta in un vortice sonoro che affattura e coinvolge lo spettatore. Una magarìa, una malia che viene da lontano come certe nenie che solo la cultura marginale ha potuto nei secoli produrre. Una cultura naturale e lontana da ogni “illuministica ragione”, ma capace di riportarci con l’incanto del suo ritmo a ripercorrere antiche vie che il rumore assordante della modernità ci ha da tempo perfidamente devitalizzato.

Saverio La Ruina mi perdonerà se, però, non mi soffermerò tanto sul suo bel testo, “Masculu e fìammina” che è andato in scena i giorni scorsi con grande successo presso la sala Pasolini di Salerno, quanto, invece, sul suo modo di stare in scena che a me sembra l’elemento più rilevante. Ebbene, lui non re-cita ma dice il suo testo con una tale sapiente naturalezza che quasi imbarazza. Non mostra i muscoli e non pretende mai di convincerci assecondando le più collaudate strategie suasorie delle retoriche della recitazione, bensì lavora con rara efficacia sul levare, sul cancellare la propria presenza, sul rendere praticamente quasi trasparente il suo corpo per valorizzare al massimo la sua voce. Da sempre usa in scena movimenti e una gestualità scarna, rigorosa e appena appena necessaria, ma questa volta fa di più. Quasi a metà spettacolo addirittura esce dallo spazio della visione e la cosa non disturba, non dispiace, lasciando la scena fatta quasi di niente (una leggera coltre di neve finta con uno sgabello di fronte alla lapide della madre del protagonista) solo al suono della sua voce che magicamente si fa puro corpo sonoro.

Il finale poi è di una semplicità poetica prodigiosa. Questo masculo che ama altri masculi che solo ora che la mamma è morta trova il coraggio di confessarglielo, si stende vicino alla sua tomba e coprendosi con la neve immagina di potersi ibernare proprio lì e risvegliarsi, magari “fra cent’anni, in un mondo più gentile”. Saverio La Ruina, così facendo, dà il colpo di grazia a un modello d’attore ingombrante e coraggiosamente s’annulla sottraendosi come solo i più grandi hanno intuito e fatto. A volte, il silenzio e l’assenza fanno davvero grande la scena.

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