Il disegno di Licio Esposito illustra il racconto dello scrittore Rocco Papa

LA LETTURA

Il sogno di un gol che vale la serie A

Prende la rincorsa, tira il rigore della vita nello stadio che scandisce il suo nome e...

La giornata è splendida, si è presentata con un sole lucente che fa brillare i tetti della città. La primavera è arrivata con tutti i suoi profumi e le sue luci nuove che cambiano il panorama. Oggi è il grande giorno, mi sento un leone, nulla può andare storto, sono il re, il più forte di tutti. Sono venuto su dal nulla, non come certi raccomandati che basta una cosa fatta bene, un mezzo campionato azzeccato e un buon procuratore, e gli si spalancano le porte della serie A. Io non ho santi in Paradiso, categoria dopo categoria, a partire dal campetto dell’oratorio, e oggi sarà quello della mia consacrazione. L’anno prossimo chissà, magari la nazionale. La strada che porta allo stadio, al “principe degli stadi”, è già affollata quando la imbocchiamo con il pullman della squadra. La gente guarda verso di noi sperando di carpire qualcosa, una faccia, un’emozione al di là dei vetri oscurati. Noi siamo seduti, le facce tese, il silenzio che non c’è mai stato durante tutto il campionato, è calato all’improvviso a sedare tutti, anche chi di solito non la smette di fare battute e tiene allegro il gruppo. Tra poco più di un’ora tutto cambierà, e poi novanta minuti da vivere al massimo. Lo spareggio per andare in seria A, e abbiamo solo una possibilità: vincere la gara casalinga. Quando scendiamo in campo per il giro di ricognizione lo stadio è già pieno. Siamo accolti da un boato che fa tremare i piloni di sostegno delle tribune e anche le nostre gambe. Qualcuno dei più giovani si guarda intorno intontito, stonato da quelle grida assordanti, che scandiscono il nome della squadra e i nostri nomi, uno a uno, come a voler consegnare a tutti noi personalmente il sogno di una intera città, un sogno da tramutare in realtà attraverso i nostri piedi, le nostre gambe, la testa e soprattutto il cuore. Gloria o oblio. Niente prova d’appello, bisogna andara avanti, e, come amano dire spesso i giornalisti: buttare il cuore oltre l’ostacolo. Le parole dell’allenatore negli spogliatoio non le sentiamo nemmeno, ognuno di noi sa bene che cosa deve fare e come farlo, e non abbiamo bisogno di essere né spronati né incoraggiati a dare il massimo. C’è tutta quella gente che ci spinge con la voce, e con la passione, non possiamo deluderli. All’entrata in campo, con le nostre belle casacche granata, che ce le sentiamo cucite sulla pelle insieme a quel logo che tanto significa per l’intera città, dalla curva si alza un altro boato, se possibile ancora più forte di quello di prima; mi chiedo che cosa sarebbe successo se avessimo segnato. Più di trentamila voci a urlare: sarebbe venuto giù lo stadio. Poi con un movimento preciso di striscioni e bandiere, si va a creare una coreografia spettacolare, con una scritta nel mezzo: orgogliosi di voi! Mi sento veramente orgoglioso di fare parte di quella squadra, della squadra della mia città, in un momento così importante. Non capita a tutti di vivere questo momento nella carriera, ne sono consapevole. La partita comincia, dura come ci aspettavamo; loro non fanno sconti, e il pubblico che a noi ha emozionato, a loro sembra averli caricati ancora di più. Il gioco è spezzettato da continui falli e da un tatticismo esasperato. Il primo tempo si chiuse in pareggio, senza reti, ma con ben sette ammoniti, tre dei nostri e quattro dei loro. Io non ho giocato male, ma non sono riuscito a fare un tiro in porta, né mettere qualche compagno nella condizione di segnare. E’ una partita strana. Il secondo tempo è uguale, la palla staziona a centrocampo, nessuna delle due squadre è capace di sfondare la difesa avversaria: tiri in porta zero. L’allenatore dalla panchina fa segno con la mano che mancano tre minuti alla fine. Sono stremato, ma so che se non segnamo in quel lasso di tempo, non avremo più possibilità, fisicamente siamo cotti, nei supplementari sarebbe stato uno strazio. Mentre penso a quella cosa, il difensore mi passa la palla, il mio marcatore per una frazione di secondo mi ha lasciato libero. Il nostro centravanti fa una finta, si libera del marcatore e si lancia verso l’area di rigore avversaria. Lo vedo con la coda dell’occhio, gli do la palla con uno di quei lanci che mi hanno consacrato come il miglior centrocampista della serie B. Lui la stoppa in corsa e si invola verso la porta. Sta per tirare, sono sicuro che sfonderà tutto, ma da dietro arriva il difensore che lo atterra. Rigore! Gli avversari protestano, ma c’è poco da fare, il fallo è netto. Tra una bolgia indescrivibile e la tensione che avvolge in una morsa tutto lo stadio, e tutta la città che guarda la partita in tv, mi avvio verso il dischetto del calcio di rigore. Mi viene in mente una canzone di De Gregori che dice: Non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. E invece io ho proprio paura. Mi rigiro il pallone tra le mani prima di piazzarlo sul dischetto. Fisso il portiere, lui mi fissa. C’è un flusso di pensieri cattivi tra noi due. Faccio tre passi indietro, sono pronto, aspetto solo il fischio dell’arbitro, ancora impegnato a placare qualche protesta degli avversari. A un tratto il pubblico comincia a intornare il mio nome, sempre più forte: Rocco... Rocco... Rocco... sempre più forte e più ritmato. Il fischio. Rocco... Rocco... Prendo la rincorsa, arrivo sul pallone e... Rocco... Rocco... Spalanco gli occhi. Mia moglie mi scuote per un braccio. “Rocco, Rocco, sono le otto, ti vuoi svegliare?” La guardo e scuoto la testa. “Che c’è?” chiede lei. “Ero sul punto di andare in serie A”.