LINGUA & TRADIZIONE

Il Nome della Rosa parla salernitano

All’Università il regista Giacomo Battiato: «L’ateneo ci ha aiutato a riportare in vita l’occitano»

Un viaggio tra lingua, cultura e tradizione per portare alla ribalta una nuova serialità, rigorosamente “made in Italy”. Non è un semplice sceneggiato di respiro storico e letterario, “Il nome della rosa”, ed è quanto trapela dalle parole del regista, Giacomo Battiato, ospite dell’Università degli Studi di Salerno. L’incontro, che si è svolto ieri mattina presso l’aula De Rosa del campus di Fisciano, è stato l’occasione per analizzare i segreti della serie televisiva tratta dal capolavoro di Umberto Eco, specie dal punto di vista linguistico. L’ateneo di Salerno, infatti, ha fornito un importante contributo grazie al lavoro del “Laboratorio di filologia romanza doc”, importante soprattutto per i dialoghi e per le traduzioni dall’italiano all’occitano medievale. Oltre al regista Battiato, che prima della tavola rotonda ha incontrato il magnifico rettore Aurelio Tommasetti, al dibattito con gli studenti hanno preso parte i docenti ed esperti Charmaine Lee, Salvatore Luongo, Giuseppe Noto, Ileana Pagani e Beatrice Solla. «E’ stata una grandissima sfida – ammette Battiato – ma anche un orgoglio poter realizzare in Italia un’opera nostra, diffondendola in tutto il mondo. Una sfida difficile, ma fortunatamente sembra sia stata vinta. La serie è stata distribuita in 187 paesi, e anche dalla Bbc, che mai aveva distribuito prodotti italiani. Sono stanco, ma molto soddisfatto». Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, il regista rivendica la scelta di inserire «la lingua occitana, sia perché legata alla storia, sia perché lo stesso Eco, nel suo libro, utilizza alcune parole. La particolarità è che si tratta di una delle tre lingue romanze neolatine, peraltro molto bella. Per questo abbiamo creato un personaggio che provenisse da quei luoghi, facendolo parlare in occitano. Da qui alla collaborazione con l’Università di Salerno». La professoressa Charmaine Lee (docente di filologia romanza del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Unisa) è tra coloro che hanno operato in prima linea per fornire al prodotto televisivo ciò di cui c’era bisogno sul piano delle traduzioni e dei dialoghi: «Il problema era quello di decidere quale tipo di testi usare – spiega – scartando i più conosciuti come le poesie liriche dei trovatori, per motivi cronologici e non. Quella dei trovatori è una lingua artificiale, era come se usassimo quella dei poeti siciliani. Abbiamo dunque preso testi più tardivi e non quelli canonici, e tramite i glossari abbiamo ricavato parole equivalenti all’italiano per i dialoghi. Bisogna dire che l’occitanistica, in Italia, è in generale un’eccellenza degli studi umanistici. A Salerno, nel nostro piccolo, abbiamo un laboratorio “doc” con un dizionario che ci è servito come strumento per trovare le parole. Contiene non solo testi lirici ma anche narrativi e trattati. C’era insomma un fondo di lessico che andava bene per ricreare i dialoghi». Giacomo Battiato non nasconde le difficoltà nella gestione di una serie di tali proporzioni: «Sono infinite, un piano di lavoro complessissimo per non parlare della ricostruzione. C’è poi la gestione delle star internazionali che non è mai facile. Infine serviva una sceneggiatura fedele, forte e difficile ma non troppo. Però sono sopravvissuto. – scherza – Questo è uno dei miracoli del “Nome della rosa”. Sorprese positive? Il risultato finale della serie, orgoglio mio e di chi ne ha fatto parte». Importante il riscontro tra i giovani, che per Battiato «non devono solo incuriosirsi, ma anche riflettere sul fatto che ci sono assonanze tra oggi e quell’epoca sia emotive che visuali, d’immaginazione e in qualche modo anche politiche». Un prodotto, “Il nome della rosa”, che potrebbe diventare il traino di una serialità tutta italiana: «Lo spero. È importante che una produzione italiana venga vista in tutto il mondo, questa è la più grande ricompensa al nostro lavoro. Mi auguro non sia un caso isolato».

Francesco Ienco