Il modello Gramsci è ancora attuale

Il professore Granese: «Gli intellettuali funzionali allo sviluppo libero e giusto di una comunità»

UGO PISCOPO. Caro Alberto Granese, tu hai una produzione critico-saggistica e anche giornalistica di carattere militante pressoché sterminata. Inoltre, simultaneamente hai svolto un ruolo importante di professore presso l'Università degli Studi di Salerno. Come hai fatto a trovare il tempo per fare così bene su un versante e sull'altro? Hai forse una formula magica per la duplicazione del tempo?

Ho impegnato tanta parte del mio tempo nelle istituzioni; ma, dopo la scomparsa di mia moglie, con cui avevo condiviso un'intensa passione civile, lasciata la quotidiana milizia politica, sposatisi i miei figli, rimasto solo, ho potuto dedicarmi completamente al lavoro di ricerca e all'insegnamento universitario.

Tanti anni fa mi telefonasti a casa, per vederci. Quando mi dicesti che eri Alberto Granese, io esclamai, per congratularmi: “Che bello, il compagno Granese, il pedagogista!”. Tu subito mi precisasti che si trattava di omonimia. Intanto, omonimia o non omonimia, eravate/eravamo dalla medesima parte ideologicamente, scrivevamo sui medesimi fogli. In bibliografia, alcuni libri tuoi venivano attribuiti a lui e viceversa. Come si vive avendo un omonimo pressoché coetaneo, che scrive e pensa in maniera non discordante?

Ho poi scoperto che il Granese pedagogista è un mio parente. Ci siamo conosciuti e tenuti in contatto; abbiamo scambiato i nostri interessi culturali. L'intreccio delle nostre bibliografie ci diverte e ci stimola; perciò, non abbiamo mai pensato di porvi delimitazioni.

Tu ti sei laureato all'Università di Roma con Giacomo Debenedetti (Giacomino, per gli amici) e devi a lui l'imprinting per le avventure nei labirinti della scrittura e per gli itinerari verso il sommerso e il complesso. Dopo la laurea, hai avuto la fortuna di dialogare con Natalino Sapegno, che ha orientato generazioni di studiosi verso le analisi delle contraddizioni della storia e della società. Il primo ha avuto, però, nella cultura italiana minore fortuna del secondo. Tu a chi dei due sei più legato nel tuo intimo?

Naturalmente sono più legato a Debenedetti, su cui, come sai, ho prodotto due monografie e saggi vari, analizzandone direttamente i manoscritti, i mitici quaderni delle sue inimitabili lezioni. Ciò non toglie che io mi senta legato anche a Sapegno, avendo frequentato la scuola di specializzazione in Filologia moderna da lui diretta nell'Università di Roma.

Nelle tue ricostruzioni della cultura occidentale, come ad esempio in “Menzogne simili al vero” (2010), tu segui dei percorsi che presentano forti omologie con le ricerche e le inquisizioni dei filosofi e dei filologi tedeschi sia dell’età classica, sia della civiltà romanza, cosa che resta un po’ latente nelle citazioni bibliografiche esplicite. C’è in te come un forte senso di pudore ovvero un amore intellettuale inconfessato. O mi sbaglio?

In realtà, in questo libro, io ho messo a frutto le due direzioni fondamentali della mia formazione culturale: quella classica, che mi proviene dalla buona conoscenza delle lingue antiche (greco e latino) e romanze (francese e spagnolo), e quella anglo-germanica, con una discreta conoscenza dell’inglese e una buona preparazione in lingua e letteratura tedesca. Questo mi ha consentito di spaziare nel libro, con indagini storico-filologiche, da poeti e scrittori, come Omero e Shakespeare, Euripide e Seneca, Cervantes e Baudelaire, Grillparzer e Thomas Mann, ai nostri autori, da Dante a Montale.

Tu, come me, hai creduto nella funzione degli intellettuali, secondo il modello suggerito da Gramsci. Ma oggi, in un contesto di globalizzazione, di tecnicizzazione avanzata, di sinergie fra sottosistemi, di emergenzialità a slavine, pensi ancora che agli intellettuali si possano affidare quelle nostre attese in cui abbiamo creduto?

La situazione attuale è diventata certamente più complessa. Nel mio ultimo libro, “Il metodo umano”, ho riproposto Gramsci, perché sono convinto, che, ferme rimanendo le distanze storiche con gli ovvi mutamenti geopolitici ed economico-sociali, la sua metodologia di analisi e finanche le sue indicazioni strategiche non solo siano ancora attuali, ma addirittura paradigmatiche per lo sviluppo libero e giusto di qualsiasi umana comunità.

Ultima domanda. Tu, dopo la laurea, hai insegnato nei licei, poi sei passato all’università. E analogamente è accaduto per tanti fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso. Penso a vicende analoghe di G. Petronio, di A. Vallone, di M. Petrucciani e di molti altri. Però, dopo, tra università e scuole secondarie non ci sono stati più simili passaggi. È stato un bene? A vantaggio di chi e di che è avvenuto quello che è avvenuto?

Questi passaggi si sono attenuati con l’istituzione dei dottorati e degli assegni di ricerca, che danno la possibilità ai laureati di acquisire una preparazione scientifica e inevitabilmente anche didattica, funzionali alla loro carriera accademica. Non solo è tuttavia auspicabile, ma anche proficuo, per una completa formazione culturale delle nuove generazioni, una sinergia tra insegnamento scolastico e accademico.

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